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Non sono avvenenti, ma di sicuro sono molto disponibili: sono le «bar girls», le prostitute che si incontrano in quasi ogni bar di Tijuana. Tariffe popolari e pericolo di contagio per le migliaia di turisti americani che ogni anno varcano il confine in cerca di emozioni.

Il sogno della globalizzazione non ha mai fatto i conti con le strade di Tijuana. Su avenida Revolución il sabato notte si può comprare tutto: coca, tacos, visti falsi, steroidi, auto rubate, sigari cubani, la morte di un nemico, una nuova vita. Al Chicago club vecchi vietnamiti e gringos sbarbati bagnano di tequila una mora che si fa chiamare Juanita: per mezz’ora d’amore si pagano 40 dollari, più 10 per una camera con le sbarre alle finestre, in un albergo che sembra un braccio della morte.

Le Marlboro le vendono poliomelitici da fumetto, la faccia coperta da una maschera di Pokémon, che sfrecciano nella calle in carrozzella: chiedono un dollaro a pacchetto. Per 25 i dottori che lavorano per le mille farmacie aperte in città preparano qualsiasi ricetta: la più popolare è per il Viagra, a un decimo del costo regolare, compresa la panciera con cui trafugarlo alla frontiera. Per passare quella i «coyotes» vogliono 1.500 dollari a testa. Ma con un dollaro appena ti mostrano lo spettacolo più nuovo ed eccitante. Si chiama El Banzai: da una parte un centinaio di messicani senza niente da perdere, dall’altra le macchine della «migra», la polizia di frontiera. In mezzo il muro del confine illuminato dagli elicotteri come fosse uno stadio in notturna. Un urlo e parte l’assalto: di solito passa uno soltanto, stanotte neanche quello.

A Tijuana il Primo e il Terzo mondo giocano a guardie e ladri: 20 miglia appena separano lo stato americano più ricco dalla città più violenta del Messico. Per arrivare bastano 30 minuti: lasci le navi da guerra ormeggiate a San Diego, passi a destra l’hotel Coronado dove svernano i presidenti americani, alla frontiera di San Ysidro non devi neppure mostrare il passaporto. È nell’altra direzione che verrai interrogato, perquisito, sniffato dai cani antidroga, la macchina passata a un nuovo tipo di raggi X che reagisce al calore dei corpi dei clandestini. I più fortunati ci mettono due ore, altri non ce la faranno mai.

San Diego e Tijuana non potrebbero essere più diverse. Quando piove, a San Diego ci si bagna, a Tijuana si muore: l’anno passato 200 sono affogati in alluvioni delle gole dove i poveri della città vivono in baracche senza fondamenta.

A San Diego guadagni in un’ora quello che un operaio di Tijuana fa in un giorno in una delle 700 «maquilladoras», le fabbriche di aziende americane che qui impiegano 185 mila persone. Da una parte sei un consumatore di cocaina, dall’altra sei arruolato in uno dei più potenti cartelli messicani della droga. A San Diego gli omicidi nel 2000 sono stati solo 52 ma a Tijuana i narcos hanno trasformato una persona al giorno in «burritos» umani, come li chiamano, perché li ritrovano fasciati nel deserto che circonda la città. Tijuana sta tra la vita e la morte, tra Nord e Sud, tra ricchezza e disperazione: in mezzo, solo traffico.

«Traffic», il film sul commercio di droga che ha ricevuto cinque nomination all’Oscar, è ambientato a Tijuana ma neanche una scena è stata girata in città: troppo pericoloso. In compenso il regista Steven Soderbergh e lo sceneggiatore Stephen Gaghan hanno passato molti giorni in avenida Revolución a intervistare agenti della Dea, quadri intermedi dei narcos e poliziotti locali. Ad accompagnarli, in una Ford Explorer, era un consulente d’eccezione: il giornalista del New York Times Tim Golden, che per i suoi articoli sul traffico di droga in Messico pubblicati ha vinto il premio Pulitzer. Fu lui a descrivere per primo lo zar antidroga messicano che nel film come nella realtà venne arrestato per essere al servizio del cartello di Juarez in guerra contro i trafficanti di Tijuana: Jesus Gutiérrez Rebollo, in galera dal 1997, viveva in una casa pagata dai narcotrafficanti. E nessuno come Golden ha descritto i fratelli che nel film si chiamano Obregon e che nella realtà sono Ramon e Beniamin Arellano Felix, capi del cartello di Tijuana, che traffica la maggior parte della marijuana e buona parte della coca che entrano negli Stati Uniti. Latitanti da quattro anni, i fratelli sono i divi di Tijuana: tutti li vedono, nessuno sa dove siano: «Due milioni di dollari (a testa)» dice il cartello con la taglia che pende sulla loro testa.

Anche il giornalista Jesus Blancornelas ha una taglia, anzi due, sulla propria vita: «Chi finalmente mi farà fuori incasserà 500 mila dollari» racconta a Panorama nel suo ufficio di direttore del settimanale Zeta, tre poliziotti a difenderlo con le mitragliette in mano. «A me non importa: sono un sopravvissuto di Tijuana». Due anni fa i narcos gli tesero un agguato: spararono in dieci, morirono in due, lui prese tre proiettili ma la sua foto non finì nell’atrio accanto a quella degli altri due giornalisti del settimanale morti per i loro articoli. Nei suoi Blancornelas ha raccontato l’ascesa degli Arellano: da ragazzi di buona famiglia alla classifica dei dieci più ricercati dell’Fbi. «Erano gli yuppie locali: li chiamavano con ammirazione narcojuniors».

Solo dopo l’uccisione del cardinale Juan Jesus Posada, nel 1993, a Guadalajara si capì la potenza dell’organizzazione. A quel punto gli Arellano avevano già stabilito un’alleanza con i produttori colombiani, ma dopo lo smantellamento dei cartelli di Cali e Medellín il loro potere è cresciuto a dismisura. I 1.300 agenti del distretto di polizia di Tijuana sono già stati rimpiazzati due volte, ma i nuovi arrivati finiscono sempre al servizio degli Arellano che ogni settimana elargiscono 2 miliardi di lire in tangenti alle autorità locali. Chi non collabora viene eliminato. È successo a due capi della polizia, una dozzina di procuratori, innumerevoli inquirenti: i sistemi di protezione della Dea non servono a niente: «Il nostro apparato tecnologico è nettamente inferiore a quello del cartello» dice in una scena di Traffic il capo dei servizi informativi della Dea, Craig Chretien, che nel film interpreta se stesso.

A volte ai trafficanti basta un cellulare e un telescopio: «Ecco le vedette» dice William Ward, agente dell’immigrazione americana, puntando il dito verso la collina da dove complici dei narcos indicano quale delle 24 porte del posto di frontiera più trafficato del mondo sembra la più veloce da passare. Da San Ysidro transitano ogni giorno 60 mila macchine e 35 mila pedoni: gli agenti hanno 30 secondi per decidere chi fermare e chi lasciar passare. Ogni giorno bloccano 15 carichi di droga: dieci volte tanto, secondo le stime, passano.

I «muli», invece, guadagnano mille dollari in media a carico ma da due anni non vengono più pagati in contanti: ricevono droga, per questo Tijuana è ora la capitale messicana dei tossici.

Ci sono 4.500 tra posti di spaccio e case del crack: 49 i centri di recupero familiari che dovrebbero prendersi cura di 80 mila tossicodipendenti. Quelli che si fanno di crack si muovono in branchi: ogni anno a Tijuana 20 mila macchine vengono rubate, incalcolabile il numero degli scippi e le rapine a mano armata.

Metà della popolazione vive al di sotto del livello di povertà: la percentuale non è cambiata con l’esplosione demografica che ha portato la popolazione a più di 1 milione di persone con un tasso di disoccupazione inferiore all’1 per cento. I 200 dollari al mese che gli operai guadagnano fabbricando stereo e televisioni non bastano neppure a Tijuana. Per farcela molti abitano in una delle tre discariche di rifiuti che la miseria ha trasformato in quartieri talmente popolati da ricevere la luce elettrica. «In pieno boom economico la città non riesce a creare altro che povertà» sintetizza Victor Frank, che difende i diritti umani dei più poveri. A lui si rivolgono i familiari dei rapiti dai narcotrafficanti: per un po’ Frank ha cercato i corpi sulla Rumorosa, come si chiama la montagna scelta come cimitero dai narcos. Poi hanno cominciato a minacciare anche lui e ha smesso.

Forse il lavoro più difficile di tutti a Tijuana ce l’ha Jorge Quinonez, addetto dell’ufficio del turismo, che si è messo in testa di trasformare la città in un luogo di vacanze per famiglie. Peccato che tutte le attrazioni che ha messo sul depliant ufficiale della città non esistano. Il campo di pelota è chiuso. L’ippodromo ospita solo corse di cani, preferite dai narcos. La plaza de toros è aperta due mesi l’anno. Una Marilyn irriconoscibile è l’attrazione del museo delle cere accanto al quale passano i 10 mila ragazzi delle università della California che ogni sabato notte visitano i bordelli. Sbronzi di sesso e tequila, alla fine della notte riprendono la macchina per tornare a casa. Alcuni si vanno a schiantare: per i quotidiani americani l’emergenza Tijuana è soprattutto questa.