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A ottobre un editoriale dell’Economist è tornato a proporre la legalizzazione della cocaina per combattere i cartelli, certificarne la qualità, aumentare le entrate dello Stato e aiutare chi sviluppa un consumo problematico.

La pianta tipica della regione andino-amazzonica ha da sempre usi alimentari e sacri ma dal 1961 è collocata nella tabella IV della Convenzione Onu del 1961 tra le piante e sostanze più pericolose. Da oltre 60 anni il “sistema internazionale del controllo delle droghe” viene usato a giustificazione di politiche di eradicazione di vegetali non coltivati per fini medico-scientifici. La guerra alla foglia di coca, in special modo in Colombia, è costata decine di miliardi di dollari senza avere avuto il benché minimo impatto sulla riduzione, o contenimento, delle coltivazioni.

Se gli Stati Uniti, primo mercato mondiale per la cocaina, hanno interamente finanziato il plan Colombia, l’Onu ha per anni investito risorse nella sostituzione di colture promuovendo caffè o palmito. Nel primo caso si sono causati danni enormi alle comunità di campesinos e all’ecosistema, nel secondo illusioni di sostenibilità.

Eppure i raccolti di coca in Colombia non hanno mai subito una flessione significativa, anzi! L’anno scorso sono tornati ai livelli record del passato invertendo una tendenza triennale. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC), le aree coltivate a coca hanno registrato un aumento del 43%, da 143.000 ettari nel 2020 a 204.000 ettari nel 2021. A seguito di ciò la produzione mondiale di cocaina è aumentata da 1.010 a 1.400 tonnellate, “la cifra più alta nei nostri 22 anni di monitoraggio” per la direttrice regionale dell’UNODC Candice Welsh.

Il neo-eletto presidente colombiano Gustavo Petro è notoriamente contrario alla guerra alla coca. Perché rappresenta una guerra contro le comunità che la producono e l’ambiente in cui vivono, come ha ribadito recentemente in una dichiarazione congiunta con l’omologo messicano Obrador. Questi numeri però complicano i suoi piani di tentare una regolamentazione del settore e di tornare a promuovere uno “sviluppo alternativo” per convincere i contadini della possibilità di dedicarsi ad altre colture che possano avere sbocchi commerciali significativi.

Per anni la Colombia ha cercato di far abbandonare la produzione di coca, ma le promesse di fornire incentivi e sussidi non si sono mai concretizzate o, quando è intervenuta l’Onu, una volta sospesi gli aiuti le colture non sono risultate sostenibili. I raccolti sono fiorenti soprattutto nelle aree vicine ai confini nazionali o in zone con facile accesso al mare, tutte aree dove bande armate illegali, narcotrafficanti e produttori collaborano indisturbati.

Secondo l’UNODC la coltivazione della coca continua a minacciare la biodiversità della Colombia, contribuendo alla deforestazione: circa la metà delle piantagioni di coca si trova in zone speciali di gestione del territorio, riserve forestali comprese. Un processo di disboscamento accentuato dallo spostamento delle coltivazioni causato dalle fumigazioni aeree per eliminare i raccolti. Fermate queste nel 2015 con Obama, dopo che un tribunale ha stabilito che l’erbicida utilizzato – il glifosato – potrebbe causare il cancro e inquinare la terra, con Trump erano tornate all’ordine del giorno e sospese solo da un nuovo intervento della magistratura.

All’inizio di ottobre, il segretario di Stato americano Antony Blinken, nell’incontrare il presidente Petro ha affermato di condividere “un ampio terreno comune” sul problema della coca e di sostenere “fortemente l’approccio olistico che la nuova amministrazione sta adottando” dichiarando che le strategie dei due pesi “sia dal lato dell’applicazione, ma anche dall’approccio globale al problema sono in gran parte sincronizzati”.

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