Tempo di lettura: 3 minuti

CIUDAD JUAREZ – L’ultimo l’hanno ammazzato poche ore fa, chissà dove. La sua testa è stata ritrovata ieri mattina, appesa ad un lampione. Aveva gli occhi bendati, il che può significare che l’uomo aveva visto troppo o che era a sua volta un killer o ancora che stava per tradire: a Ciudad Juarez, grigia città alla frontiera con il Texas, il linguaggio dei cadaveri vanta un’infinità di sfumature a seconda della parte del corpo che viene restituita per la sepoltura o della messinscena dell’esecuzione. Tre giorni fa, vicino ad Acapulco, di corpi la polizia ne ha rinvenuti ventisette, ammonticchiati in un canale. I narcos non li avevano neanche seppelliti. La settimana scorsa, invece, a Urapan, nello stato del Michoacán, un’intera famiglia è stata sterminata durante una festa di compleanno.

E’ raccapricciante il bollettino della guerra dichiarata quattro anni fa ai trafficanti di droga dal presidente messicano Felipe Calderon. Sono cifre da battaglie di trincea, da offensive tra eserciti regolari. Se nel 2009 ci sono stati 17 omicidi al giorno legati al narcotraffico, nei primi nove mesi di quest’anno i morti quotidiani sono saliti a 38. Dall’inizio del 2010, notizia riferita due giorni fa, i narcos hanno ucciso 10.043 volte. Ogni tre quarti d’ora, c’è qualcuno che viene massacrato di botte o torturato o amputato, e infine ucciso.

Eppure, a Tijuana o Acapulco, Morelia o Ciudad Juarez, il dispiegamento delle forze dell’ordine è massiccio. Nelle strade di questi luoghi operano 50mila militari e 25mila agenti federali, incapaci però di fermare le violenze. Anzi, il numero dei morti continua ad aumentare, probabilmente perché, come spiega il giornalista Sergio Gonzalez Rodriguez, “dietro ogni gruppo criminale si nascondono rappresentanti del potere economico e politico”. Calderon è perciò con le spalle al muro. E la sua guerra sembra averla già perduta da un pezzo.

L’emblema della sconfitta è Ciudad Juarez, capitale mondiale del crimine. Dopo l’eccidio di sedici ragazzi compiuto nella notte tra il 30 e il 31 da un gruppo di sicari del cartello “los Zetas”, questo borgo di frontiera cresciuto troppo in fretta è diventato la città più pericolosa del pianeta. Qui si contano 192 omicidi al mese per centomila abitanti: un dato da primato che lo pone molto avanti a San Pedro Sula, in Honduras, dove si ammazza 119 volte al giorno. Ciudad Juarez è assediata da soldati e poliziotti: li vedi ovunque, molti con il passamontagna calato sul viso, altri ai posti di blocco nascosti dietro a pesanti mitragliatrici, altri ancora a bordo di carri armati. Ma il narcotraffico continua a prosperare, e il capo del potente cartello della città, Vicente Carrillo Fuentes, detto “El Viceroy”, è sempre ricercato, pur vivendo probabilmente a poche centinaia di metri da una caserma di militari.

Salvo i poliziotti, a Ciudad Juarez in molti hanno voglia di parlare. Tutti però chiedono di non scrivere il loro nome. Neanche su un giornale italiano. L’eccezione si chiama Francisco Campos, ingegnere, con un passato di assessore municipale. Secondo Campos, l’impennata di morti e di violenza è destinata a proseguire, se non a peggiorare, perché la posta in gioco è sempre più alta: “Il problema del Messico è la sua vicinanza con gli Stati Uniti, dove c’è il più grande mercato della droga del mondo, il cui fatturato supera i 25 miliardi di dollari l’anno. Da noi, invece, dove la maggior parte della popolazione ha meno di 16 anni, il tasso di disoccupazione è uno dei più alti del pianeta. Come stupirsi quindi se dal 2006 i morti per mano dei narcos sono stati 26mila”.

Un imprenditore che chiede di restare anonimo racconta che per la prima volta, il 16 luglio scorso, come fossero a Kabul o Bagdad, i narcos hanno fatto esplodere un’autobomba nel centro di Ciudad Juarez: “Poco prima avevano lanciato una granata in una piazza di Morelia, e bloccato tutte le vie di accesso a Monterrey. Negli ultimi cinque mesi sono stati uccisi 9 sindaci. Ormai si comportano come i guerriglieri di Al Qaeda. Non sbaglia chi parla di narcoterrorismo”. In un bar del centro, un ragazzo ci mostra su Internet le immagini agghiaccianti che diffondono i clan rivali per minacciare altri trafficanti o, magari, un politico locale. Anche qui salta agli occhi l’analogia con i terroristi islamici, poiché “los malosos”, i cattivi, appaiono sempre incappucciati e con un mitra in mano. L’orrore è documentato, fotografato, filmato fino all’ultimo spasimo delle loro vittime. Il sito su cui appaiono queste barbarie, racconta il ragazzo, ha già avuto più di 450mila contatti.
Un’infermiera dell’ospedale principale, che chiameremo Esmeralda, è costretta per mestiere a frequentare i morti ammazzati di Ciudad Juarez. Dice: “Quando c’è una sparatoria con feriti, la grande difficoltà consiste a portarli fino a qui. La maggior parte di essi è connessa al narcotraffico. E’ perciò quasi impossibile che l’ambulanza arrivi senza problemi”. Perché? Perché c’è sempre qualcuno che la ferma per giustiziare il ferito.