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CITTÀ DEL MESSICO – E’ un cancro che divora la società messicana, si allarga a macchia d’olio in tutte le zone di frontiera con gli Stati Uniti, e ora minaccia l’Europa. In dieci anni i cartelli della droga messicani sono diventati i padroni dei traffici nel continente americano, hanno raggiunto una potenza di fuoco impressionante, triplicato i loro introiti. Sono la sfida più difficile che il Messico, democrazia ancora fragile, deve affrontare da un secolo a questa parte.

Da semplici intermediari al servizio delle gang colombiane, i messicani sono diventati padroni di traffici sempre più diversificati (marijuana, cocaina, eroina), ai quali affiancano anche rapimenti, contrabbando d’armi e di carburanti. Un recente rapporto del dipartimento di Giustizia statunitense sottolinea la loro egemonia nella produzione e smercio di metanfetamine, la cocaina dei poveri, un eccitante di sintesi molto meno caro delle droghe classiche, ma anche molto più pericoloso. Quanto alla coca, i messicani forniscono oramai il 90% di quella consumata negli Usa.

Il governo messicano è stato costretto a limitare le importazioni dei componenti chimici che servono a produrre le droghe di sintesi, come la pseudoefredina. Ma la merce continua ad arrivare di contrabbando, dalla Germania, dall’India, dalla Cina, persino dall’Africa centrale. Nel marzo 2007 la polizia ha scoperto, a Città del Messico, 207 milioni di dollari in contanti nella villa di un trafficante cinese di metanfetamina, Zhenli Ye Gon: una somma che dà l’idea della potenza finanziaria dei cartelli. Negli Stati Uniti i messicani reclutano bande di delinquenti latinos o afroamericani per gestire la vendita della droga all’ingrosso e al dettaglio. Ma ora guardano anche al Vecchio Continente. Per penetrare in Europa il cartello di Sinaloa usa gli alleati colombiani, e i loro contatti con mafia e ’ndrangheta.

I narcos hanno approfittato anche dal relativo abbandono delle campagne messicane: uno studio del Tribunale superiore dell’agricoltura stimava che nel 2007 un terzo delle terre coltivate erano coperte da piantagioni illegali di cannabis e papavero: 9 milioni di ettari, contro gli 8,2 coltivati a mais. I contadini ricevono dai trafficanti fino a 400 mila pesos (26 mila euro) per ettaro. Lo stesso ettaro coltivato a granturco gli rende 800 euro.

Dal suo arrivo al potere, nel dicembre 2006, il presidente Felipe Calderón ha voluto dare un segnale all’opinione pubblica usando l’esercito nelle regioni dove i narcos avevano i controllo del territorio. Ma i cartelli hanno reagito con inaudita violenza: attentati, decapitazioni, video in stile Al Qaeda di esecuzioni. Le forze di sicurezza pagano un prezzo alto. La lotta al narcotraffico ha fatto 2500 morti lo scorso anno: 261 erano poliziotti, 35 militari. Più inquietante ancora, i cartelli sono riusciti a imporre i «loro» candidati in molte città degli Stati di Michoacan e Tamaulipas. Il candidato di sinistra Juan Antonio Guajardo, che aveva osato denunciare la manipolazione dello scrutinio in numerosi municipi del Tamaulipas, e la complicità del governatore Eugenio Hernandez (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri, la maggiore forza politica del Paese da quasi un secolo), è stato crivellato di colpi assieme ad altre cinque persone il 29 novembre scorso.

Ma non è il solo vecchio e corrotto Pri a essere pesantemente infiltrato dai narcos. Anche il Partito della rivoluzione democratica (Prd, di sinistra) non è immune dalla pressione dei cartelli. La guerra è ancora lunga.