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«Subiva soprusi, minacce e intimidazioni dalle guardie. Non lo curavano, non gli facevano avere i soldi che gli mandavo. Era dimagrito moltissimo e si sentiva isolato. Mi diceva: “mamma, qui gli italiani sono considerati feccia, io non muovo un dito, non reagisco, altrimenti finirebbe male”». Suo figlio glielo scriveva nelle lettere che le inviava regolarmente e lo ha ripetuto anche dieci giorni fa, quando era riuscito a procurarsi un telefonino e a chiamarla a Viareggio. Ora Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, l’uomo di 31 anni morto nella martedì in una cella del carcere di Grasse, nell’entroterra di Cannes, parla da Nizza, da un albergo vicino all’ospedale dove è stato trasferito il corpo del figlio e chiede «giustizia».

E’ insieme a una cugina e all’altro figlio Tiziano. «Voglio sapere cosa è successo davvero. L’ambasciata e il governo si attivino, perché i francesi non dicono la verità. Daniele non è morto di un infarto fulminante come dicono. Grazie all’avvocato e a una rappresentante del consolato siamo riusciti a sapere che martedì alle 13,30 si era sentito male. Aveva chiesto aiuto e l’avevano portato in infermeria per un elettrocardiogramma. Ma i sanitari l’avevano rimandato in cella dicendo che non aveva niente. Poi l’hanno trovato solo alle 17,30, dopo 4 ore, steso sulla branda, con il giornale appoggiato sulla faccia. Era morto». La madre di Daniele pensa che i fatti non si siano svolti così, che ci siano lati oscuri che le autorità francesi non vogliono rivelare: «Ma come è possibile che l’abbiano rispedito in cella se stava male, e come è possibile che se ne sia andato per un arresto cardiaco. Daniele non ha mai avuto problemi al cuore, era un ragazzo sano. Solo lì erano peggiorate le sue condizioni. Nelle lettere mi diceva che i soldi che mandavo da Viareggio gli arrivavano dopo un mese, e anche quando riusciva ad averli le guardie lo vessavano. Lui, come tutti i detenuti, li affidava a un secondino per farsi comprare cibo, giornali e sigarette fuori dal carcere. La regola voleva che per la spesa ogni detenuto scrivesse un biglietto. Ogni volta la guardia tornava e dicevano che l’avevano perso e che non avevano potuto prendergli niente. Così non mangiava e si consumava. Dimagriva e aveva sempre più paura».

La signora Antignano è sconvolta, è arrivata questa mattina presto a Nizza e ancora non le hanno fatto vedere il corpo del figlio: «Hanno anticipato l’autopsia di un giorno – denuncia – doveva essere martedì, invece la faranno domani. Inoltre le autorità ci impediscono di nominare un medico legale italiano, dicono che è troppo tardi e che avremmo dovuto portarcelo dall’Italia». Secondo la donna, Daniele subiva intimidazioni continue. «L’ultima volta l’ho sentito al telefono dieci giorni fa. Non so come avesse fatto, ma malgrado le rigide regole carcerarie era riuscito a procurarsi un telefonino da qualcuno che era in carcere con lui. Mi ha raccontato che qualche giorno prima gli avevano trovato in cella alcuni grammi di “fumo” e le guardie carcerarie lo avevano subito accusato dicendo che lo avrebbero messo in isolamento e che l’episodio avrebbe aggravato la sua posizione. Ma nessuno è andato a trovarlo in quei giorni, neanche l’avvocato francese che segue il suo caso da quando è stato arrestato, a fine febbraio. Qualcuno ha messo lì l’hashish, qualcuno lo voleva incastrare. Grazie all’intervento dell’avvocato, la questione sembrava essersi in qualche modo risolta. Ed era stato scagionato da questa accusa. Ma Daniele era molto preoccupato e me lo ha ripetuto svariate volte».

Anche con le visite i francesi sembravano molto rigidi: «Io l’ho visto per la prima e unica volta ad aprile, ma solo dopo varie richieste perché quando era stato incarcerato non mi fecero entrare». E di cose da chiarire nei cinque mesi di reclusione ne sono successe. «Un mese e mezzo fa mi scrisse che aveva avuto la febbre tra 39 e 41, che aveva avvertito i secondini, ma nessuno lo considerava, gli dicevano che il medico non c’era e che doveva stare zitto. Era svenuto, poi per calmare la febbre metteva la testa nel piccolo frigo che aveva in cella. E solo dopo 4 giorni l’avevano curato».

Intimidazioni continue, la minaccia di metterlo in una cella con i detenuti più pericolosi: «Glielo dicevano perché si lamentava per il lavoro in cucina. Lo facevano lavorare a ritmi infernali. Mi scriveva: ”Mamma, io non ce la faccio più, tengo duro solo perché la psicologa dice che mi potrebbero mettere in isolamento o la mia posizione nel processo poi potrebbe aggravarsi. Ma quale aggravarsi. Come è possibile che uno resti in carcere per più di cinque mesi solo per essersi presentato a una casinò con una carta di credito falsa. E come è possibile che poi ci muoia”.