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Le politiche di produzione di conoscenze nel campo delle droghe. È questo il tema su cui voglio scrivere. Oh, sospirerete, ancora una volta un tema astratto che può far piacere agli accademici, ma a chi interessa tra quanti, in questo campo, si occupano di problemi pratici? Okay, vi ho sentito. Lasciate che vi spieghi.

Il mese scorso stavo lavorando con un gruppo di giovani studiosi di scienze sociali sovvenzionati da una fondazione britannica che effettua ricerche nel campo della salute e del diritto penale per il governo britannico. Il piacere di discutere i dati, che i ricercatori hanno meticolosamente raccolto intervistando migliaia di persone arrestate e detenute, era immenso. Domande sull’uso di droghe, su quanto efficaci o inefficaci tali persone considerassero il “trattamento” che avevano ricevuto, cosa avesse a che fare il consumo di sostanze con i reati da loro commessi e con i contatti con la polizia: una specie di cassaforte piena di dati. Il problema di questi ricercatori – compreso il direttore del progetto, altamente qualificato – era: possiamo riportare i dati che troviamo, o dobbiamo piuttosto interpretarli in modo che essi non dispiacciano ai policy makers che finanziano questa ricerca?

Al committente non sarebbe certamente piaciuta la verità, cioè il fatto che il trattamento è visto molto spesso come una estensione del carcere, che la disponibilità legale delle sostanze ridurrebbe moltissimo i problemi di queste persone, che la marginalizzazione di questi consumatori frequenti non è stata causata solo dalle droghe ma, in larga misura, dalla povertà e dalla mancanza di studi. Il committente è un’istituzione burocratica che ha bisogno di sopravvivere nell’arena della criminalizzazione della droga. Essa potrebbe usare una ricerca che rafforzi la sua posizione in questa arena. Ma se dimostra che le attuali politiche proibizioniste accrescono i problemi inerenti alle droghe, una ricerca diventa controproducente per questi policy makers. Lo stesso avviene quando i dati dimostrano che molti problemi attribuiti alle droghe si spiegano meglio se visti come effetti di politiche fallimentari nel campo della previdenza sociale e dell’istruzione.

Nelle mie discussioni con i ricercatori ho sottolineato il fatto che la piena responsabilità per i dati scientifici e le interpretazioni era loro! Essi non devono fare proprie le preoccupazioni dei burocrati che li finanziano, perché allora sarebbero essi stessi dei policy makers e non dei ricercatori, cosa per cui invece sono stati assoldati. Non so bene quanto successo io abbia avuto con questo gruppo di ricercatori. Il loro pane, le loro automobili dipendono dal fatto che il governo affidi loro altri incarichi. Se disturberanno i loro committenti creando delle conoscenze inutili per questi (ma molto utili per noi!), cosa sarà del loro lavoro tra un anno o due? Essi mi hanno detto che non sono liberi di pubblicare i dati senza il consenso del governo. Nemmeno in riviste scientifiche. Problemi simili esistono in ricerche apparentemente indipendenti sulla tossicità delle droghe, ad esempio per quanto riguarda l’mdma (ecstasy). Molti ricercatori negli Usa possono sperare di ottenere dal Nida fondi per la ricerca solo se intendono dimostrare quanto l’mdma sia tossico, e come questa droga non possa essere usata in modo responsabile. Tempo fa lo studioso di neuroscienze Charley Grob si è occupato di questo problema sulla rivista Addiction Research and Theory.

Chi, come noi, è interessato a dimostrare la miseria e i costi delle attuali politiche sulle droghe deve capire che molti dei “fatti” e delle “conoscenze” generate dall’attuale sistema politico sono in grandissima misura “costruiti” da tale sistema. A noi spetta non solo suggerire migliori politiche sulle droghe, ma anche evidenziare le trappole della produzione di conoscenze nel nostro campo producendo conoscenze più indipendenti, dunque migliori.