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LONDRA — Quel che Ravi Shankar meglio ricorda del festival di Monterey — estate del 1967, quando lui era all’apice della fama, il guru delle celebrità — è l’infelice collocazione della sua performance. Prima c’erano i Jefferson Airplane, gruppo dal sound in contrasto con il virtuoso del sitar; subito dopo arrivava un certo Jimi Hendrix, allora quasi sconosciuto, ma che stava facendo parlare di sé per i suoi turbolenti e feroci assolo alla chitarra elettrica. «Hendrix mi sembrava fantastico, ma davvero assordante—dice ora Shankar, scuotendo il capo —. E poi faceva quel numero con il suo strumento, apriva una latta di benzina e dava fuoco alla chitarra: la gente impazziva per una cosa del genere, a loro piaceva, ma per me bruciare la chitarra era il peggior sacrilegio possibile. Sono corso via. Ho detto che a costo di pagare una penale, non avrei suonato al festival. Non avrei proprio potuto».

La soluzione degli organizzatori fu quella di lasciare a Shankar il palco per una performance pomeridiana, durante la quale Hendrix rimase tranquillamente seduto in prima fila ad ascoltare i suoi raga. Questo incidente si inserisce in una carriera musicale tra le più straordinarie e bizzarre. Alla veneranda età di 88 anni, Shankar si è appena congedato dall’Europa con un tour culminato al Barbican Centre di Londra, dove ha eseguito con la figlia Anoushka, anche lei suonatrice di sitar, una selezione di raga scelti per l’occasione. Quando lo si conosce, si ha difficoltà a credere che quest’uomo minuto e gentile sia stato un divo della controcultura. Ci saluta con un namaskar, un leggero e cortese inchino, e il suo tono di voce è poco più di un sussurro: «Spero di farmi capire — dice, scusandosi di soffrire di jet lag per il lungo viaggio che ha dovuto fare dalla California, suo paese adottivo —, non mi abituo più come un tempo al cambio di fuso orario».

Cinquant’anni fa Shankar, già famoso in India, arrivò per la prima volta in Europa e negli Stati Uniti, proprio quando si stava diffondendo la mania per le filosofie orientali. John Cage propinava a un pubblico stupefatto il silenzio zen, e il pioniere hippie Timothy Leary difendeva l’uso delle droghe sostenendo di essere membro di un’oscura setta indù. Shankar venne accolto da tutti a braccia aperte: da John Coltrane, che diede a uno dei figli il suo nome, al violinista Yehudi Menuhin; molti dei suoi discepoli lo vedevano come una specie di faro spirituale. E soprattutto divenne il guru che introdusse George Harrison, e attraverso di lui i Beatles, alla musica, alla cultura e alla filosofia indiana. Quando nel 1966 conobbe Harrison, Shankar sapeva molto poco dei Beatles, non aveva mai sentito «Norwegian Wood », il primo brano in cui Harrison impiega il sitar. Ma i due si piacquero: «Mi sono affezionato a George—dice Shankar —. Gli ho dato l’autobiografia di uno yogi ed è così che ha iniziato a interessarsi alla cultura vedica e alle cose indiane. Per me è stato come un figlio».

Da principio Shankar si divertiva dell’attenzione che gli proveniva da quel sodalizio. «Avevo l’ammirazione di tutti questi hippies ed è stato molto bello suonare a Woodstock, davanti a mezzo milione di persone». Ma si è presto stancato: «Ero molto scontento di tutta quella superficialità, e soprattutto delle informazioni sbagliate che Timothy Leary e altri andavano diffondendo, dicendo che in India tutti usano droghe. Era un miscuglio di Kama Sutra, Tantra, yoga, hashish e Lsd e intanto la vera qualità spirituale della nostra musica andava completamente perduta». Ai tempi dei figli dei fiori l’attenzione dei media si concentrava sui suoi amici e ammiratori famosi, trascurando troppo spesso di menzionare le doti musicali di Shankar.

Come si può vedere ancora oggi nei suoi concerti, Shankar usa il sitar con incredibile virtuosismo, e il suo stile soave e delicato spesso esplode in momenti di improvvisazione vivacissima, più dinamici di quelli di un chitarrista rock. Le sue collaborazioni con Menuhin – duetti che sembrano una variazione orientale/ occidentale dei duelli tra suonatori di banjo – sono tra i più intensi esempi di fusione culturale mai scritti. In India le sue composizioni sono state accolte in uno dei canoni musicali più rigorosi del mondo. Dato che la musica indiana è appunto basata sull’improvvisazione, Shankar non può mai dire con esattezza che cosa il pubblico si debba aspettare dai suoi concerti: «A differenza della musica occidentale, noi non abbiamo composizioni scritte, nulla di prestabilito. Perciò neppure io so mai cosa avverrà dal vivo. Questo per me, e per chi mi ascolta, è l’aspetto più emozionante; è come servire ancora caldo un piatto appena cucinato».

Nato nel 1920 nella città sacra di Benares sul Gange, Shankar cominciò a suonare a dieci anni, quando girava il mondo con la compagnia di danza del fratello Uday. Sarebbe diventato anche lui un danzatore se non fosse stato per il maestro Ustad Allauddin Khan, che suonava con il gruppo: «Mi sgridava dicendomi “Sarai un nulla, sarai servo di tutti e padrone di nessuno”. E questo mi dava fastidio». Poi, quando la guerra ha impedito le trasferte della compagnia, Shankar ha passato sette anni a studiare il sitar con Khan in uno sperduto villaggio del nord. Si è fatto un nome in Occidente intraprendendo giri di concerti all’estero. Ha cominciato in piccole località nell’URSS, in Cecoslovacchia e in Polonia, per poi riempire in breve tempo l’Albert Hall e la Carnegie Hall. Coltrane gli chiese di dargli lezioni e cominciò a inserire strumenti indiani nel suo jazz. «Stava preparandosi a venire da me per sei settimane di studio quando è morto», dice Shankar; era il 1967.

A metà degli anni Settanta Shankar ha cominciato a prendere le distanze dal movimento hippy, anche se, a quanto pare, è stato piuttosto restio ad abbandonarne uno dei principi fondamentali: il libero amore. In quel periodo di vita complicata e internazionale ha avuto due figlie: Norah nel 1979, da Sue Jones, produttrice di concerti; e Anoushka nel 1981 dalla moglie attuale, Sukanya Rajan, che aveva corteggiato mentre era ancora impegnato con un’altra partner. Tutto questo fece notizia quando Norah (Jones), raggiunto il successo nel 2002 con il suo primo album «Come Away with Me», non si curò di ringraziare il padre nel discorso che fece quando ritirò il Grammy ricevuto. «Penso di non essere l’unico in questa situazione — dice Shankar mortificato —. Succede a molti musicisti, attori, scrittori che diventano noti e viaggiano molto. Si sta sempre in paesi diversi e ci si sente soli». Dopo anni di distacco, ora Shankar si è riconciliato con Norah, mentre Anoushka è diventata la sua principale discepola e la sua speranza per il futuro. A 88 anni ammette che è difficile non pensare all’eredità che lascerà: «Sì, ci penso. Seguo Anoushka e le insegno cose nuove: la nostra musica continua a crescere perché non è scritta o fissata in un libro».