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Il Premio Nobel per la Letteratura peruviano Mario Vargas Llosa; lo scrittore messicano Carlos Fuentes; gli ex presidenti Fernando Henrique Cardoso (Brasile), César Gaviria (Colombia), Ernesto Zedillo (Messico); l’ex segretario dell’Onu Kofi Annan; il fondatore della Virgin Richard Branson; l’ex alto commissario per i Diritti umani dell’Onu Louise Arbour; l’ex rappresentante dell’Unione Europea Javier Solana; l’ex numero uno della Banca centrale degli Stati Uniti Paul Volcker. Queste persone hanno un orientamento ideologico piuttosto eterogeneo, ma tendente più verso il centrodestra che verso il centrosinistra.

Il presidente boliviano Evo Morales è invece considerato di sinistra radicale, malgrado l’eclettismo del suo indigenismo. Il governo messicano è espressione del Partito di azione nazionale (Pan) del presidente Calderón, di centrodestra. Il governo brasiliano è infine una grande coalizione il cui nucleo è il Partito dei lavoratori (Pt) della presidentessa Dilma Rousseff e del suo predecessore Lula, di sinistra.

Eppure, il “radicale” Morales e il gruppo di personalità “moderate” citate, che rappresentano poi una “Commissione globale sulle politiche della droga” presieduta da Cardoso, condividono la stessa idea, che in Europa è considerata “di sinistra”, per quanto queste etichette possano ancora essere valide: l’approccio proibizionista al problema della droga non funziona.

Anzi, semmai è Morales, ad avere un approccio lievemente più a “destra”: sempre a patto di considerare valida una convenzione che forse dovrebbe evocare più certe canzoni di Giorgio Gaber o certi film di Nanni Moretti che non la politologia, e secondo la quale l’antiproibizionismo sui narcotici starebbe a sinistra e il proibizionismo a destra. L’appello all’Onu che lo scorso 2 giugno ha rivolto la Commissione di Cardoso era improntato infatti all’antiproibizionismo.

“Cinquant’anni dopo la Convenzione unica degli stupefacenti dell’Onu del 1961 e a quaranta da quando il presidente Nixon lanciò per conto degli Stati Uniti la guerra globale contro le droghe, è urgente che vi siano riforme fondamentali nelle politiche globali e nazionali di controllo”. Due le proposte concrete: togliere dalla categoria delle droghe proibite non solo i derivati della canapa indiana ma anche la foglia di coca e l’ecstasy, e “smetterla con la criminalizzazione” non solo dei drogati, ma anche di coltivatori e piccoli spacciatori.

Morales, come già ricordato in questa rubrica, ha già rivolto un appello all’Onu per togliere dalla lista delle sostanze proibite della Convenzione del 1961 la sola foglia di coca, la cui tutela è stata espressamente inserita nella nuova Costituzione boliviana. Insomma, il concetto non è “vietare la droga è controproducente”, ma “la foglia di coca non è droga”. Oltretutto, al non accoglimento della richiesta il governo boliviano ha risposto il 30 giugno con la denuncia della Convenzione, in esecuzione di una legge approvata dal Senato boliviano due giorni prima, e con effetto dal prossimo primo gennaio.

Morales ha poi emanato provvedimenti di carattere pesantemente proibizionista contro le verbenas, equivalente delle nostre sagre paesane, proprio per combattere l’alcolismo. “Risparmieremo soldi da utilizzare per opere pubbliche, e non avremo sindaci ubriachi e popolo ubriaco il giorno dopo” ha detto Morales, secondo il quale i problemi di ordine pubblico in Bolivia non derivano dal narcotraffico ma da “consumismo, alcool, film d’azione e telenovelas”.

Divenuto presidente della Bolivia dopo una carriera da leader dei sindacati dei piccoli produttori di coca, Morales ha promesso comunque che Sucre continuerà a fare la sua parte contro il narcotraffico e che al momento dell’uscita dalla Convenzione chiederà l’immediata riammissione – con l’espressa riserva della non proibizione della foglia di coca: una richiesta già bloccata dalla perplessità degli Stati Uniti, che pure avevano asserito di rispettare l’uso tradizionale della foglia di coca da parte delle popolazioni andine. Sarebbe però necessario aspettare 12 mesi, e avere l’assenso di almeno i due terzi dei paesi firmatari: evenienza al momento piuttosto improbabile. Il fatto è che Morales ha magari ragione a dire che coca e cocaina sono cose diverse, e che con la coca si potrebbero fare tante altre cose più sane, ma al momento il grande mercato che assicura remunerazione è quello della materia prima per la droga.

Dunque, oggettivamente la decisione del governo boliviano di assicurare la libertà di produrre coca legalmente nella regione del Chapare oltre che in quelle Yungas che già assicuravano il fabbisogno per usi tradizionali e consentiti è andato in gran parte a favore del narcotraffico. Siamo fuori dall’area di questa rubrica, ma è interessante il raffronto con l’Olanda, dove governi di tutti i colori hanno insistito sulla politica di riduzione del danno, attraverso il permesso di consumo dei derivati dalla canapa indiana nei cosiddetti Coffee Shops, ma dopo decenni di proteste del resto dell’Unione Europea hanno infine deciso di riservare l’ingresso ai possessori di un apposito tesserino ottenibile solo da cittadini olandesi.

Come i “moderati” della Commissione di Cardoso hanno sorpassato a sinistra Morales dal punto di vista della radicalità dell’approccio antiproibizionista, così il governo di sinistra brasiliano sta sorpassando a destra il governo di destra messicano per la radicalità dell’approccio proibizionista. Entrambi stanno infatti mandando i militari a dar man forte e anche a sostituire la polizia contro i narcos; il Brasile, in più, per “ripulire” le favelas di Rio in vista di Olimpiadi e Mondiali sta utilizzando anche elicotteri e blindati. Va detto che se la linea pur parziale della Bolivia di Morales sta peggiorando alcune situazioni, non è che la linea muscolare di Brasile e Messico stia ottenendo risultati migliori. In aggiunta a quanto già a suo tempo osservato sul caso messicano, le notizie più recenti non fanno che confermare lo stallo, per il quale a ogni colpo importante inferto dalle autorità i narcos rispondono con uno altrettanto devastante.

Al momento di scrivere queste note, la penultima notizia era appunto quella che le autorità erano riuscite a individuare la coltivazione di marijuana più grande mai rivelata in tutta la storia del Messico: 120 ettari a un lato della strada Guerero Negro-Ensenada, nella Baja California, appartenenti al Chapo Guzmán, il narco nella lista dei miliardari di Forbes: piante alte un metro e mezzo, capaci di produrre 120 tonnellate di marijuana e 60 milioni di sigarette, per un valore di 158 milioni di dollari.
Subito dopo sicari dei narcos hanno ucciso 11 poliziotti e un civile in un’imboscata all’ingresso della città di Guasave, nello Stato di Sinaloa, la culla del Cartello del Pacifico guidato dal Chapo Guzmán. Malgrado il governo federale messicano annunci arresti e uccisioni di narcos in continuazione, l’offensiva di questi ultimi procede ancora più velocemente: si estende a tutta l’America Centrale, e dell’intero Guatemala si parla ormai come di un possibile narco-Stato.

Più a sud anche la Colombia vanta importanti successi nella lotta al narcotraffico attraverso un approccio muscolare, ma il risultato è stato semplicemente che la produzione peruviana di coca è tornata a superare quella colombiana. Arriviamo al Brasile: l’autore di queste note ci insiste spesso, ma è sempre utile ricordare la ridefinizione delle rotte che si ebbe quando negli anni ’90 furono spazzati via quei cartelli colombiani che trasformavano in cocaina la coca di provenienza peruviana e boliviana per portarla negli Stati Uniti.

Come nel caso della mitica Idra in cui il taglio di una testa ne faceva spuntare altre due, anche col narcotraffico la rotta cancellata fu sostituita da due nuove. Una sempre diretta verso gli Stati Uniti, con la Colombia trasformata da paese di smercio a paese di produzione e la transazione assicurata dai cartelli messicani. L’altra, con la coca peruviana e boliviana trasformata in cocaina e portata verso l’Europa da nuovi mediatori brasiliani e nigeriani.

Dunque, il boom peruviano e boliviano è alimentato dalla tratta Brasile-Nigeria-Europa. In Brasile, il traffico è gestito da cartelli che hanno la loro roccaforte nelle favelas e che sono nati da gruppi di ex-guerriglieri del tempo del regime militare che avevano cercato di convertire alla causa delinquenti comuni, finendo per essere da loro assorbiti dopo il ritorno alla democrazia. In particolare il Comando Vermelho, appunto “Comando Rosso”, ma anche i suoi vari spin off e rivali: Comando vermelho jovem, Amigos dos amigos, Comando revolucionario brasilieiro do crime, Primeiro comando da capital, Terceiro comando. Una dopo l’altra, le favelas di Rio stanno venendo “ripulite”.

I narcos rispondono diffondendo una nuova droga chiamata oxidado, o oxi. Ha prezzi stracciati, perché si fa con i residui del processo di trasformazione della coca in cocaina: la crosta che resta sul fondo della pentola, composta da alcaloidi puri, viene trattata con kerosene o benzina o nafta, che assieme a calce o permanganato di potassio fanno appunto ossidare la pasta base.

Assomiglia al crack, ma il fumo viene grigio invece che bianco, e invece di ceneri lascia una sostanza oleosa. Inoltre è cinque volte più potente del crack, e cinque volte più economico: i 2 réis che viene una sigaretta corrispondono a 0,90 euro: “la pietra da due réis”, la chiamano a San Paolo. E mentre i solventi usati per il crack statunitense o il più rustico basuco colombiano possono in qualche modo essere messi sotto controllo, non si può evidentemente fare altrettanto con chi va a fare un pieno dal benzinaio.

L’oxido è stato inventato fin dagli anni ’80, non a caso in quello Stato amazzonico di Acre che si trova al confine con Bolivia e Perù. Le autorità si sono accorte della sua esistenza, sempre nell’Acre, solo nel 2003; poi si è diffuso nel Nord, e la sua esplosione nelle grandi città brasiliane è stata proprio quest’anno: ben 60 chili sequestrati dalla sola polizia di San Paolo tra gennaio e maggio. Quasi un sequestro ogni settimana.

Solo a marzo la stessa polizia ha capito che non si trattava di crack, ma di un nuovo stupefacente del quale non si era mai accorta prima. Per caso: se ne è bruciato un po’ durante una dimostrazione di fronte a giovani reclute, e si è visto appunto che produceva fumo e residui diversi. “Uno stupefacente che rende dipendenti fin dalla prima volta che si consuma e che uccide tre persone su dieci entro un anno di assuefazione”, ha scritto Le Monde, uno dei primi giornali europei a segnalare il pericolo. Assieme alla polizia, un allarme è venuto dai dentisti, per la necrosi che provoca in bocca. Tra gli effetti: mal di testa, vomito, diarrea, sconforto, angosce, paranoia, allucinazioni. E crisi di aggressività gravi, dopo tre giorni di non assunzione. Wilson Martins, governatore dello Stato settentrionale del Piaui, denuncia che nel territorio da lui amministrato almeno 8 omicidi su 10 sono legati all’oxidado.

Si parla anche di bambine che per procurarsi la droga si prostituiscono a 8 anni, e di giovani in crisi di astinenza che cercano di surrogare con tè di pile alcaline. Neanche i villaggi indigeni si salvano. Il timore immediato è che l’oxidado finisca per rimpiazzare completamente il devastante ma tutto sommato più controllabile crack. Il timore ulteriore è che proprio Olimpiadi e Mondiali permettano all’oxidado di sbarcare in Europa.

Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Agi Energia, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze. Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo,  in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche