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Un piccolo numero di Stati sta utilizzando il nostro processo decisionale basato sul consenso per tenere in ostaggio la CND mettendo i propri interessi nazionali al di sopra degli obiettivi collettivi di questa Commissione.” Queste le parole del vice Capo Missione degli USA a Vienna, Howard Solomon, poco prima che la Commission on Narcotic Drugs dell’ONU (CND) votasse la risoluzione che per la prima volta ha introdotto la riduzione del danno nel linguaggio delle delegazioni degli stati membri delle tre convenzioni sulle droghe.

Il documento, presentato da 21 paesi, aveva al centro il dramma delle overdose, in particolare da oppioidi sintetici, e le risposte in termini di politiche sulle droghe. Il risultato è stato netto: 38 paesi a favore, 6 astenuti e solo 2 contrari: la Russia e la Cina. Il voto, avvenuto su richiesta proprio della Russia, è stato necessario dopo che gli Stati Uniti nella fase preparatoria avevano già accettato di portare le citazioni della riduzione del danno dalle iniziali 9 ad una sola, oltre che rimosso l’esplicito riferimento al drug checking (il servizio che permette alle persone di conoscere cosa stanno realmente usando). Gli USA hanno deciso di tenere duro e non hanno accettato ulteriori annacquamenti: l’hanno imposto i 650.000 morti in 10 anni per overdose, la stragrande parte dei quali per oppioidi sintetici.

Qualche avvisaglia che tutto non scorresse come al solito era arrivata anche la settimana prima, durante il segmento ministeriale. Il documento finale di revisione quinquennale della strategia mondiale sulle droghe era stato al solito approvato all’inizio della sessione, prima ancora del dibattito. Ma stavolta, non essendo riusciti a trovare il consenso su un testo dopo mesi di trattive, il Presidente ghanese della CND aveva presentato il giorno prima una dichiarazione da approvare con “procedura silenziosa”. Più che una vera e propria “revisione” uno stanco copia e incolla dai precedenti documenti. Nessuno aveva obiettato nelle 24 ore successive, per cui il testo è stato licenziato più che per consenso, per assenza di dissenso.

Anche il dibattito ministeriale sembrava avviarsi verso un ripetersi di ipocrite dichiarazioni che eludevano l’evidenza dell’assoluta inefficacia delle politiche globali nell’affrontare il “il problema mondiale della droga”. Non fosse che 60 paesi guidati dalla Colombia – fra questi l’Italia – hanno diffuso una dichiarazione congiunta che ripercorre le tragiche conseguenze dell’attuale politica globale e sottolinea l’importanza del rispetto dei diritti umani e dell’approccio di riduzione del danno. Il testo conclude con un esplicito riferimento ad un cambio di passo: “decidiamo di rivedere e rivalutare congiuntamente il sistema internazionale di controllo delle droghe”. Pur non rivoluzionaria, non fa esplicito riferimento ad esempio alla regolamentazione legale, è comunque un passo importante. Ann Fordham, direttrice dell’International Drug Policy Consortium, sottolinea come “il fatto che la maggioranza dei membri votanti abbia appoggiato la dichiarazione della Colombia significa che questa può essere considerata, per molti versi, il “documento finale alternativo” della Midterm Review”. Dei 60 firmatari infatti, 27 sono fra i 53 membri della CND (ovvero i paesi, designati su base regionale, che hanno diritto di voto a Vienna). All’ultimo minuto la Russia ha tentato di controbattere con una dichiarazione che impegna i paesi a “promuovere attivamente una società libera dall’abuso di droghe” e condannare la legalizzazione della cannabis. Attorno ad essa ha raccolto 46 paesi, e solo 15 con diritto di voto.

Poi c’è stato l’intervento, attesissimo, di Antony Blinken. Il Segretario di Stato americano ha stupito un po’ tutti dicendo che erano necessarie “prevenzione, riduzione del danno, trattamento e supporto al recupero per salvare vite umane”. Una prima volta, per gli USA, che hanno poi dato seguito alla linea con la risoluzione approvata a fine CND. Del resto, quando “un americano muore ogni cinque minuti per overdose”, la rituale ipocrisia non basta più.

Lo ha detto, molto chiaramente, il presidente colombiano Gustavo Petro nella sua dichiarazione a Vienna: “Non esiste un “problema mondiale della droga”, ma un problema di sviluppo. Una questione di esistenza. Lo spirito negazionista che prevale – ora che il sistema globale di controllo delle droghe sta affondando – sta costringendo i Paesi a rispondere, in una sorta di interpretazione flessibile delle convenzioni“.

Il “consensus” si è quindi rotto. A partire dagli anni ’80 lo “spirito di Vienna” voleva che di fronte al “flagello droga” si dovesse andare avanti tutti insieme. La sua strenua ricerca ha causato lo stallo del dibattito in quello che è il massimo organo politico delle convenzioni sulle droghe. Un dibattito istituzionale fuori dalla realtà, pieno di ipocrisia e dogmi, che veniva svuotato di ogni contenuto innovativo con mediazioni puntualmente al ribasso. Una “Chiesa della proibizione” come ama definirla Peter Cohen. Essa non ammette le evidenze scientifiche perché eretiche, e per questo per il sociologo olandese “la politica sulle droghe, quella vera, non è fatta né sviluppata a Vienna”. In effetti, almeno negli ultimi 40 anni, è stata fatta altrove, prima di tutto nelle città. In Europa sono state le municipalità ad essere protagoniste nell’affrontare la scena aperta dell’eroina introducendo interventi di riduzione del danno: dallo scambio siringhe alle stanze del consumo, sino alla somministrazione controllata. Poi, più recentemente, gli stati hanno cominciato a riprendersi il diritto di interpretare le convenzioni al di fuori dei dogmi proibizionisti. Così prima depenalizzando il consumo (come in Portogallo), poi addirittura avviando sistemi di regolamentazione legale della sostanza più diffusa, la cannabis. L’aria sembra cambiata: finalmente anche alla CND si può parlare il linguaggio pragmatico dell’oggi.

Rotte le catene del “consensus” c’è grande attesa per la prossima CND, nella quale forse si potrà aprire la strada della riforma.