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KABUL – Secondo il Drugs and Crime report delle Nazioni Unite, la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto livelli da record nel corso dell’ultimo anno. L’Afghanistan detiene il primato nella produzione di oppio a livello mondiale: più del 93%. Secondo il rapporto, soltanto la Cina agli albori del diciannovesimo secolo poteva vantare un simile livello di produzione e di terre dedicate alla coltivazione. Il maggiore incremento, e la maggiore superficie coltivata a oppio, si registra nella provincia di Helmand, al sud del paese. Le truppe della coalizione si propongono di irrorare di diserbanti, per via aerea, più coltivazioni dell’anno scorso, e di inviare ancora più truppe nella provincia di Helmand per distruggere i campi coltivati. Karzai è stato messo sotto pressione perché estrometta dal suo governo e dai quadri dell’amministrazione chiunque sia in qualche modo connesso al traffico di droga, e ha respinto sdegnosamente l’ipotesi avanzata dal Senlis Council di legalizzare in qualche modo, controllandola, la coltivazione del papavero da oppio. Autorizzando, per esempio, le case farmaceutiche a istruire gli abitanti dei villaggi nelle lavorazioni di base del papavero. L’unico sistema, secondo gli studiosi, davvero in grado di risolvere in qualche modo il problema, di far crollare i profitti dei trafficanti e di avere infine la possibilità di riconvertire gradualmente le coltivazioni. Anche perché le strategia finora adottate sono state fallimentari e i risultati, nei casi in cui i contadini hanno accettato di riconvertire i raccolti, sono stati pessimi. Mancate promesse, e fame, rischiano difatti, di rendere un pessimo servizio alla coalizione e di gettare la popolazione locale, anche quella più collaborativa, tra le braccia dei Taliban. Secondo gli analisti, difatti, l’avanzata dei talebani verso Kabul è direttamente proporzionale al numero di fallimenti, anche e soprattutto nelle politiche economiche e nei rapporti con i contadini, registrati nelle aree a sud del paese dalle forze di coalizione. Emblematico il caso di Nagahar, citata dai rapporti ufficiali come caso-modello. Gli sforzi combinati delle autorità locali hanno difatti prodotto un risultato a prima vista eccezionale: il 97 per cento delle coltivazioni sono state distrutte e i campi sono stati riconvertiti alla produzione di grano o di patate: coltivazioni moralmente più accettabili, ma che non rendono neanche quello stretto necessario per sopravvivere in dignitosa indigenza. La coltivazione del papavero, infatti era, ed è ancora nella maggior parte dei casi, l’unica fonte di sostentamento per i contadini. Le analisi delle organizzazioni governative parlano chiaro: il problema dell’Afghanistan è certamente un problema politico ma, soprattutto, economico. Inutile combattere le coltivazioni di oppio, se poi l’effetto che si ottiene è quello di far guadagnare supporto ai taliban che, con l’oppio, hanno sempre avuto un atteggiamento molto pragmatico: ne era proibito il consumo e, ufficialmente, anche la coltivazione. Ma hanno sempre chiuso un occhio sulla cosa, e spesso anche due. Perché, come sa chiunque da quelle parti, la gente con la pancia piena accetta molto più di buon grado qualunque strampalata imposizione religiosa o pseudo tale. E perchè, soprattutto, il traffico d’oppio è stato, ed è ancora, una delle colonne portanti dell’economia locale e il principale mezzo di finanziamento della guerriglia. La rete del traffico d’oppio era stata difatti messa su negli anni ottanta dall’Isi, i servizi segreti pakistani, e dalla Cia: che se ne servivano per finanziare la guerriglia afghana che lottava contro l’invasione sovietica. Sconfitti i sovietici, il traffico ha continuato a prosperare arricchendo il governo dei Taliban e quello di Islamabad: le raffinerie, difatti, si trovavano in Pakistan, dall’altra parte del confine.