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Qui a Huanuni, nei caotici recessi dell’Altiplano (1), c’è una miniera di stagno. Altrove si trova oro, rame, antimonio, argento e zinco, petrolio e naturale. Ma qui a Huanuni, se si scende a 240 metri nelle viscere della terra, nell’oscurità soffocante di chilometri di gallerie, è per prendere dello stagno. Ventiquattro ore su ventiquattro, 850 minatori lavorano per mille bolivianos al mese – circa 125 euro.
«Lavoriamo anche la domenica, dice uno di loro, per guadagnare tre mitas». La mita corrisponde a una giornata di lavoro; in altre parole rinunciando al riposo domenicale si riceve in cambio l’equivalente di tre giornate di lavoro.
Qui la gente non ha nulla da perdere. E se necessario va a La Paz con un candelotto di dinamite in mano. «Abbiamo avuto dei morti, ma il nostro ruolo è stato fondamentale nel far cadere"Goni" e Mesa».
«Goni» è Gonzalo Sánchez de Lozada, presidente liberista del Movimento nazionalista rivoluzionario (Mnr), rovesciato da una sanguinosa rivolta popolare – 86 morti – il 17 ottobre 2003. Mesa è Carlos Mesa, il suo vicepresidente e successore, che a sua volta si è dovuto dimettere il 6 giugno 2005, dopo tre convulse settimane di disordini sociali.
Dal 1985 tutti i governi, di destra come di sinistra, hanno dogmaticamente seguito le linee della Nuova politica economica adottata con il decreto 21060: privatizzazione delle miniere, delle telecomunicazioni, dei trasporti aerei e ferroviari, dell’acqua, dell’elettricità, del petrolio e del gas.
I contadini alzano la testa La privatizzazione delle miniere di stagno ha portato al licenziamento di 25.000 minatori, infliggendo un durissimo colpo alla Centrale operaia boliviana (Cob). Questa organizzazione, vero e proprio contropotere fin dai tempi della rivoluzione dell’aprile 1952, aveva guidato la battaglia contro i militari durante tutto il periodo della dittatura, fino al 1982. Così, più del trauma ideologico provocato nel 1989 dalla caduta del muro di Berlino, è stata la chiusura delle fabbriche a indebolire questo movimento di orientamento marxista. Lo scontro sociale ha perso significato. Ma questa fase di ripiegamento è solo apparente perché, come spiega il sociologo Alvaro García Linera, «la società ha creato altri meccanismi di rappresentazione dell’azione politica: i movimenti sociali, articolati in organizzazioni territoriali».
I primi a rialzare la testa sono i cocaleros nella regione del Chapare, organizzati in comunità agrarie (sindacati). Attraverso la coltivazione di coca, questi contadini hanno risolto un problema fondamentale, la sopravvivenza! Washington non nasconde la sua insoddisfazione.
Nella sua crociata contro il narcotraffico, la Casa bianca ha una sola ossessione: far scomparire la coca e i cocaleros, accomunati con la cocaina, attraverso politiche coercitive, lo sradicamento forzato delle piantagioni e la repressione. A contrastare questa politica si fa notare un dirigente, un combattente, un indio aymara, Evo Morales.
Nel 2000 si mobilita Cochabamba per espellere la multinazionale Bechtel, principale beneficiaria della privatizzazione dell’acqua potabile.
Il paese comincia a muoversi, si ribella al neoliberismo. Presidente del sindacato dei cocaleros, Evo Morales assume un rilievo nazionale attraverso la creazione nel 1999 del Movimento verso il socialismo (Mas), più una confederazione di organizzazioni sociali che un partito vero e proprio. Deputato di Cochabamba dal 1997, battuto di un soffio alle elezioni presidenziali del giugno 2002, riesce a far eleggere al Congresso 36 fra deputati e senatori (dopo le elezioni amministrative del 2004 il Mas è diventata la prima forza politica del paese).
Nel frattempo in campo sociale si sono affermate numerose organizzazioni: la potente Confederazione sindacale unitaria dei lavoratori contadini della Bolivia (Csutcb), base sociale del radicale Movimento indigenista Pachakuti (Mip); il Movimento dei senza terra della Bolivia (Mst-B); quello che rimane della Cob e le sue affiliate, le Centrali operaie regionali (Cor). A tutti questi movimenti bisogna aggiungere le cooperative e i coordinamenti per l’acqua, come i comitati di quartiere di El Alto, impressionante città dormitorio di 800.000 contadini e minatori, per lo più indios, situata a 15 minuti sopra La Paz, sulla polvere ocra dell’Altiplano. Raggruppate nella Federazione dei comitati di vicinato (Fejuves), queste strutture iniziano la lotta contro la multinazionale Aguas de Illimani (Suez-Lyonnaise des eaux). E dalla lotta per l’acqua a quella per il gas, il passo è breve.
Oltre che produttrice di petrolio, la Bolivia è seconda solo al venezuela quanto a riserve di gas dell’America latina. La costituzione riconosce la proprietà inalienabile dello stato sulle risorse naturali presenti «nel sottosuolo». Ma nel 30 aprile 1996 la legge n. 1689 concede alle compagnie private la proprietà degli idrocarburi una volta fuoriusciti dall’«inalienabile» sottosuolo. Così prospezione, sfruttamento, trasporto, raffinazione, distribuzione e commercializzazione finiscono nelle mani delle multinazionali. Considerate come «nuovi», i giacimenti petroliferi e di gas scoperti in base alla legge del 1996 e quelli ancora non sfruttati, sono tassati solo al 18%, mentre i «vecchi» (molto spesso ribattezzati «nuovi» in base a qualche sottigliezza verbale) lo erano al 50%.
Fingendo di non vedere l’esasperazione del popolo, il presidente Sánchez de Lozada organizza un gigantesco progetto di esportazione di gas naturale in California. Una redditizia operazione per il consorzio Pacific Lng, ma un vero e proprio furto per il paese. Inoltre il gasdotto sarebbe dovuto passare per il Cile, «nemico storico» dopo la disastrosa guerra del 1879. La popolazione si ribella. «Goni» fa sparare sulla folla, ma alla fine è costretto a scappare dal paese.
Gli succede il vicepresidente, Carlos Mesa.
Recupero delle risorse naturali, «nazionalizzazione» degli idrocarburi, convocazione di un’assemblea costituente figurano nel programma di tutte le componenti delle forze popolari. Sottoposto alle loro pressioni, ma appoggiato in questa circostanza da Evo Morales, il capo dello stato organizza un referendum sugli idrocarburi il 18 luglio 2004.
La popolazione partecipa numerosa e in grande maggioranza (il 70%) si pronuncia per il «recupero» della loro proprietà.
Così il 21 ottobre, con la disapprovazione del presidente Mesa che la considera «illegale» e «coercitiva» per le multinazionali, il Congresso approva una nuova legge che accresce la presenza dello stato nel settore petrolifero e fissa un’imposta diretta sugli idrocarburi (Idh) del 32% alla produzione (questa imposta si aggiunge al 18% già in vigore, così da portare il carico fiscale dello stato al 50%).
Un progresso per alcuni, tra cui il Mas. Un tradimento per i radicali della Cor e della Fejuves di El Alto, della Cob e del Mip, favorevoli a una nazionalizzazione radicale con l’espulsione delle multinazionali senza alcun risarcimento.
Ma in realtà questo vasto movimento di contestazione, capace di unirsi nei momenti difficili, si caratterizza anche per una grande divisione.
«Divisioni territoriali, ideologiche, religiose, di classe», precisa García Linera, considerato da molti come l’«ideologo del movimento sociale». Lui sorride di fronte a questa definizione – «È molto lusinghiera» – ma come vedremo in seguito, anche il dettaglio ha la sua importanza.
«In determinati momenti – riprende – questo movimento riesce a costruire unità territoriali locali, su argomenti di grande importanza – acqua, elettricità, energia. In periodi di tensione ciò si trasforma in una grande capacità di mobilitazione e in azioni collettive, che nei momenti più duri degli scontri si articolano in movimento di massa. Ma non appena l’obiettivo comune è stato raggiunto si ritorna alla divisione».
Una nuova ondata di proteste Durante le elezioni del 2002 Evo Morales aveva subito duri attacchi dalla destra americana, che lo aveva definito «narcococalero», «strumento di Chávez e di Castro», «amico delle Farc [Forze armate rivoluzionarie della Colombia]». Ma la situazione oggi si è rovesciata e sono i «duri» del movimento popolare che lo criticano. «Evo è un traditore», afferma Jaime Solares, dirigente della Cob. «Si era impegnato a lottare per la nazionalizzazione e invece è diventato complice del governo».
Su di lui circolano pubblicazioni che parlano del «ruolo di Evo Morales nella strategia e nei piani della Cia e del Dipartimento di stato per contrastare la protesta sociale».
Tuttavia il capo del Mas non si demoralizza: «Non c’è stato alcun patto con Mesa, nessuna alleanza. Se ci sono dei provvedimenti cattivi, li rifiutiamo. Se sono buoni, come la convocazione del referendum, li appoggiamo». In effetti il Mas è di nuovo molto critico nei confronti di Mesa, che, puntando sul progressivo esaurimento dell’ondata di protesta, ha adottato un atteggiamento immobilista. Ecco riapparire in Bolivia una nuova ondata di agitazioni difficili da controllare.
Radicali, moderati, contadini, cittadini, tutti riprendono a lottare con energia contro una destra neoliberista, che comincia a riorganizzarsi attorno alle élite bianche delle ricche province dell’est del paese, Santa Cruz e Tarija. Infatti i Comitati civici di queste province reclamano l’autonomia e chiedono che ogni dipartimento disponga liberamente delle proprie risorse finanziarie e naturali. Ciò permetterebbe loro di sfruttare gli importanti giacimenti di gas e di petrolio di cui dispongono, e di vendere queste risorse alle condizioni del passato così da non irritare le multinazionali, loro fedeli alleate.
Nel frattempo El Alto marcia su La Paz, sul territorio dei bianchi, della classe dominante, del potere statale. Si parla di istituire un’assemblea popolare rivoluzionaria, embrione di uno «stato operaio contadino», sotto la direzione della Cob. Un «soviet» destinato a superare il «conciliante» Evo Morales. Per i moderati si tratta di una «provocazione di estrema sinistra», che finisce per fare il gioco dell’estrema destra. Il Cob infatti, anche se rifiuta la mediazione della chiesa, invoca attraverso il suo capo Solares l’intervento dell’esercito, dimenticando cosa hanno rappresentato le forze armate durante gli anni della dittatura! Mentre circolano voci su possibili colpi di stato, Morales denuncia le pretese della «nazione camba» (gli autonomisti di Santa Cruz), ma non si dice contrario a una soluzione costituzionale.
Grazie alle sue numerose organizzazioni, sempre pronte a concludere patti e accordi, per poi tradirsi subito dopo, l’opposizione riesce a paralizzare il paese nel maggio e giugno 2005, spingendo Mesa alle dimissioni il 6 giugno.
Costituzionalmente Hormando Vaca Diez, senatore del Mir (Movimento della sinistra… rivoluzionaria!)(2) di Santa Cruz e presidente del Senato, avrebbe dovuto guidare la successione. Gli altri partiti tradizionali – Nuova forza repubblicana (Nfr), Alleanza democratica nazionale (Adn) e il Movimento nazionalista rivoluzionario (Mnr, il partito di Sánchez de Lozada) – lo appoggiano per conservare il potere. L’agitazione è enorme. Nessuno vuole questo proprietario terriero, esponente della lobby petrolifera. La rivolta continua quando viene fatto il nome di Mario Cossío (Mnr), presidente della Camera dei deputati, anche lui ex alleato di «Goni». Alla fine il 10 giugno il Congresso, spaventato dalla minaccia di guerra civile, nomina il presidente della Corte suprema Eduardo Rodríguez (l’unico che ha il potere di convocare nuove elezioni). Con un accordo politico nazionale destinato a far uscire il paese dal caos e dopo che il congresso aveva approvato una riforma della costituzione (articolo 93), Rodríguez convoca le elezioni generali per il 4 dicembre 2005.
Un grande passo in avanti per il Mas. Morales si trova infatti in una buona posizione per vincere le presidenziali. «Si tratta di elezioni storiche – afferma, esprimendo un sentimento condiviso da gran parte della popolazione, Alex Contreras, dirigente della Scuola del popolo 1° maggio a Cochabamba – Dopo venti anni di ritorno al sistema democratico è la prima volta che il movimento sociale, popolare e indio si trova a un passo dall’assumere il potere». La presenza di un indio a capo della più alta carica dello stato sarebbe una novità per la Bolivia e per l’intera America latina.
Due blocchi litigiosi Il problema è che dopo aver trionfato insieme, i due grandi blocchi di questo movimento sociale continuano a litigare fra di loro. Entrambi possiedono una base rappresentata in maggioranza da indios e a composizione urbana e rurale. I radicali, riuniti attorno alla Cob, al Mip e alla Fejuves di El Alto, sono forti nella zona aymara (l’Altiplano), la più combattiva del paese, e adottano una politica a forte connotazione etnica. Al contrario il movimento del Mas, che ha una base rurale (contadini del Chapare, delle Yungas, di Sucre, di Potosi, di Oruro, di Santa Cruz; braccianti e confederazioni indie dell’est del paese) e una massiccia presenza in alcuni settori urbani, ha forti legami con le corporazioni e invece di incentrare il programma sull’identità etnica ha adottato un approccio che potremmo definire «nazionale».
Nella sede della Cob, Solares si infiamma evocando «la rivoluzione operaio-contadina, cioè la presa del potere attraverso l’insurrezione popolare». Non è disposto ad accettare alcun compromesso e, forse per far dimenticare le ombre che macchiano il suo passato (3), ricorre a un vocabolario con una forte carica simbolica: «Noi lavoratori siamo convinti che si avvicini il momento della guerra civile o della rivoluzione». E anche se i militanti della Cob non sono molti, un attento osservatore della società boliviana faceva notare che «riescono a nascondere bene la loro scarsa capacità di mobilitazione dietro una retorica molto radicale – in realtà quelli che portano avanti la vera mobilitazione sono gli indios e i contadini. Solares sa bene che il suo discorso è irrealistico ma non gli importa. L’importante per lui è mettere in difficoltà un Mas più moderato e capitalizzare questa libertà di parola».
Stesso atteggiamento per Roberto de la Cruz, dirigente della Cor di El Alto. Lancia molti progetti, uno più radicale dell’altro: formare un’assemblea popolare, gruppi d’assalto per combattere le cambas, un Esercito di liberazione nazionale. Si tratta di un individuo ideologicamente confuso, ma molto deciso nei momenti di crisi e capace di infiammare le folle. Un discorso simile riguarda Abel Mamani, dirigente della Fejuves di El Alto: «Ha capito che bisogna puntare sulla resistenza.
Attraverso la resistenza è riuscito a crearsi un suo spazio politico, ma politicamente è molto vago».
Leader del Mip e degli indios contadini della Csutcb, Felipe Quispe ha diretto negli anni Novanta l’Esercito guerrigliero Tupac Katari (Egtk), prima di venire arrestato e imprigionato per cinque anni.
Quispe, chiamato il malku (condor, in lingua aymara), chiede il ritorno al Collasuyo (4): «Vogliamo costruire un nostro stato confederato, un nostro governo diretto da un presidente indio, un nostro esercito, una nostra economia come discendenti di Wayna Qhapak, il governo sovrano degli incas». Analizzando la situazione come una «guerra di razze», Quispe critica indistintamente i q’aras (non indios) di destra e di sinistra, e riguardo gli ultimi avvenimenti afferma: «Il popolo ha trionfato. Abbiamo sconfitto Mesa e il Mas, che era sceso a patti con lui».
Differenze politiche, ideologiche, ma anche e soprattutto scontri fra diverse linee direttive e caudillos. Più anziano, Quispe sopporta con difficoltà di vedere il più giovane Evo Morales, cobrizo (5) come lui, prendere il suo posto fra gli indios (di fatto la Csutcb, che dirige, si è divisa in due) e la popolazione in generale. Queste resistenze riguardano anche i dirigenti secondari. Mamani (Fejuves di El Alto), ad esempio, non discute la leadership di Morales, ma non vuole diventarne un subordinato.
Testimoni del progresso del Mas, unico movimento politico-sociale nato dall’azione popolare a essere riuscito a superare il quadro locale, i dirigenti della Cob, del Mip, della Fejuves sognano di formare una nuova struttura politica, senza però averne i mezzi.
Da ciò la forte frustrazione di questi dirigenti.
Alcuni episodi surreali la dicono lunga sulle ambizioni personali e sulla confusione ideologica che regna tra le forze di sinistra.
Solares (Cob) ad esempio se la prende con Morales – «Evo non ha mai parlato per i lavoratori o per il proletariato; pensa solo alla coca, ai territori, all’identità [degli indios]» – per poi affermare: «Faremo una grande alleanza rivoluzionaria con Felipe Quispe», il più intransigente dei leader indios del continente americano! Nel caso la candidatura di Solares alla vicepresidenza come alleato di Mip e Malku farebbe rapidamente cilecca. Intanto Mamani, minacciando di organizzare mobilitazioni di protesta nel 2006 se non otterrà soddisfazione, informa di essersi deciso ad appoggiare il Mas o il Gruppo dei sei (G-6), una coalizione dei sindaci di La Paz, Cochabamba, Potosi, Sucre, Oruro e Cobija, che vuole rappresentare la «sinistra moderna», anche se al suo interno sono molto forti le divisioni ideologiche e pratiche (6).
In questa situazione di confusione le organizzazioni di secondo piano ne approfittano per aumentare le loro richieste. «Le iniziative prese non sono legate ai problemi di fondo – osserva Contreras – ma al potere che ognuno potrebbe ottenere appoggiando o meno il Mas al Congresso». Di fatto queste prese di posizione sono destinate a far fallire qualunque alleanza o a ritardarla portando Morales ad affermare: «In America latina siamo bravi a rovesciare i presidenti. Dovremmo essere altrettanto bravi a sostituirli». Per poi precisare: «La partecipazione di tutti sarebbe auspicabile. Ma bisogna analizzare a fondo la situazione.
La mia non è una posizione massimalista favorevole alla lotta armata, all’insurrezione, al colpo di stato. Punto su un cambiamento del modello economico e sociale basato sulla coscienza del popolo e sulla democrazia».
Possiamo considerare questa situazione come una crisi dalle caratteristiche prerivoluzionarie, priva di strumenti politici? Difficile a dirsi.
Di fatto la base non segue sempre coloro che affermano di rappresentarla.
Nestor Guillén, dirigente di Villa el Ingenio (che fa parte della Fejuves), racconta che a El Alto le manifestazioni erano inizialmente organizzate dai dirigenti. «Compañeros, bisogna scendere in piazza!».
Ma a poco a poco la situazione è cambiata. Ormai nei quartieri sono gli abitanti che decidono: «Dobbiamo muoverci! Dobbiamo manifestare!».
Si tratta di un’esigenza venuta dal basso. «La capacità di mobilitare El Alto non dipende dalla Fejuves, ma dai distretti e dai quartieri, che nelle loro assemblee decidono di agire. Senza questo intervento Mamani può convocare chi vuole, nessuno lo seguirebbe». Ecco perché gli abitanti di El Alto, nonostante l’appello al boicottaggio lanciato dal loro capo, hanno partecipato in massa al referendum sugli idrocarburi, dando implicitamente ragione al Mas, che molto probabilmente appoggeranno anche in occasione delle prossime elezioni.
Nel frattempo Quispe si è tagliato i ponti alle spalle dimettendosi da deputato (uno dei sei seggi del Mip ottenuti alle elezioni del 2002) e dichiarando: «Preferisco lavorare nelle campagne e fare là il lavoro politico che sono abituato a fare». Quando gli si chiede se vorrebbe tornare in parlamento, risponde con la solita franchezza che lo caratterizza: «Non sono nato per fare il deputato, sono nato per essere presidente!». L’episodio non è passato inosservato. «Questo atteggiamento dimostra la sua mancanza di sensibilità politica, riassume Guillén. Don Evo [Morales] invece si è assunto le responsabilità del suo mandato parlamentare, ha sempre dimostrato di essere contro il modello esistente ed è rimasto al suo posto per guidare la lotta».
Elezioni contrastate In ogni caso il Mas ha fatto segnare un importante punto a suo favore quando, nell’agosto scorso, ha designato come candidato alla vicepresidenza il sociologo Alvaro García Linera. Quest’uomo ha combattuto con l’Egtk di Quispe e, come quest’ultimo, è stato in prigione fino al 1995.
Capace di dichiarare «ho fatto parte di un gruppo della guerriglia e non me ne pento, sono sempre lo stesso di quindici anni fa, solo che oggi ho cambiato metodi», García Linera è visto come un punto di riferimento dal movimento sociale. Di fatto la sua nomina ha portato al Mas il sostegno di sei confederazioni contadine, di settori delle cooperative minerarie, di importanti sindacati operai regionali (Oruro, Potosí, Cochabamba), dei trasportatori di El Alto e della stessa Fejuves (7). Inoltre, considerato come uno degli intellettuali più influenti della Bolivia, García Linera si è attirato anche le simpatie di una parte della classe media e degli studenti. Si assiste quindi a una forte affermazione del Mas, largamente in testa nei sondaggi, a scapito di Jorge Quiroga, transfuga dell’Adn (il partito dell’ex dittatore e poi presidente democraticamente eletto Hugo Banzer) e candidato dell’ambasciata degli Stati uniti.
Una situazione che ha scatenato il panico nello schieramento neoliberista, che cerca di rimandare le elezioni per trovare una valida soluzione alternativa. Dimenticando che l’organizzazione anticipata delle elezioni è stata il frutto di un accordo politico per superare la grave crisi istituzionale, il 4 agosto i parlamentari di Santa Cruz hanno presentato un ricorso alla Corte costituzionale. Denunciano il mancato rispetto dell’articolo 60 della costituzione, che definisce i seggi della Camera dei deputati sulla base dell’ultimo censimento, in questo caso quello del 2001. In effetti la situazione particolarmente grave ha spinto a non tenerne conto, anche se il censimento ha permesso di constatare un aumento della popolazione lungo l’asse La Paz, Santa Cruz, Cochabamba, che dovrebbe portare a un aumento della loro rappresentanza parlamentare. Il 22 settembre la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il ricorso, aprendo la strada a una nuova fase di forte agitazione politica.
Un nuovo nemico per Bush Ma indipendentemente dalla data delle prossime elezioni, previste il 18 dicembre, l’Assemblea costituente e la nazionalizzazione degli idrocarburi sono gli emblemi della crisi e delle speranze del paese.
A questo proposito il Mas, convinto del proprio successo elettorale, non ha intenzione di lanciarsi in azioni sconsiderate. «Una nazionalizzazione senza risarcimento, come chiedono i radicali, ci farebbe tornare agli anni Sessanta. In un paese così piccolo, che vive grazie all’aiuto delle organizzazioni internazionali, finiremmo per trovarci in una situazione peggiore di quella affrontata da Cuba con il blocco economico», analizza Contreras (8). García Linera dice le stesse cose: «È una questione di rapporti di forza. Sono per una soluzione pragmatica.
Cosa possiamo fare con la Petrobras, cioè con il governo brasiliano?
Un paese di 175 milioni di abitanti! Dobbiamo mostrarci prudenti».
Morales riassume affermando: «Molte multinazionali operano sulla base di accordi illegali e anticostituzionali, fanno del contrabbando, non pagano le imposte. Noi faremo rispettare la legge, ma puntiamo su una nazionalizzazione attraverso il dialogo e la concertazione».
I vari problemi vengono inseriti in un contesto più ampio, proprio come fa la rivoluzione bolivariana in Venezuela. Un tipo di sviluppo nel quale lo stato svolge un ruolo centrale, ma che tiene conto anche degli investimenti stranieri.
Sulla Costituente la destra ha una posizione estremamente critica e la considera «un’assemblea costituita per il 60% da indios, capace di mandare in rovina il paese attraverso la concessione di diritti di proprietà sulle risorse naturali e sulla terra» (9). Il Mas invece conta di far eleggere un organismo a maggioranza india (a immagine del paese), pienamente sovrana, senza nessuna limitazione o restrizione.
Anche in questo caso adottando un modello molto simile al Venezuela.
Nel frattempo gli Stati uniti hanno fatto del dirigente del Mas il loro nemico numero uno. «Tutti sanno che Evo Morales si appoggia a Caracas e all’Avana, dove si trovano i suoi migliori alleati», ha affermato Roger Noriega, sottosegretario di stato americano per l’America latina. A queste affermazioni il diretto interessato ha risposto il 31 luglio, durante la sua proclamazione a candidato alla presidenza della repubblica: «Chávez e Fidel non appartengono ad alcun asse del male. Sono i comandantes delle forze liberatrici del continente». Dimostrando, questa volta, i limiti della sua «moderazione».
note:
(1) Altopiano andino della Bolivia occidentale e del Perù sud-orientale.
(2) Creato negli anni Settanta per lottare contro il militarismo, il Mir si è trasformato in un corrotto partito neoliberista, ma ha preferito non cambiare sigla. In un paese povero come la Bolivia, collocarsi a sinistra significa usufruire di un importante capitale politico.
(3) Secondo diverse testimonianze, Solares sarebbe stato nei centri minerari un informatore dei gruppi di sicurezza dello stato. Alcuni ex dirigenti minatori, arrestati durante la dittatura di Luiz García Meza, hanno dichiarato pubblicamente di essere stati denunciati da Solares.
(4) Patria ancestrale dell’impero Inca (l’ovest della Bolivia, una parte del Perù meridionale, il nord dell’Argentina e del Cile).
(5) Colore della pelle rivendicato dagli indios radicali.
(6) Alla fine la coalizione del G-6 si è sciolta, minata dalle sue stesse contraddizioni.
(7) Risolvendo a suo modo il problema del «leader» di El Alto, il Mas ha fatto di Mamani il suo candidato alla prefettura di La Paz, dove non ha alcuna possibilità di essere eletto, con la conseguenza di «bruciarlo politicamente».
(8) Già adesso le società Petrobras (Brasile), Repsol-Yfp (Spagna-Argentina), British Gas (Gran Bretagna) e Total (Francia) hanno annunciato che avrebbero bloccato i loro investimenti in Bolivia. Nel frattempo le multinazionali ricorrono agli accordi internazionali di protezione reciproca degli investimenti per contestare la nuova legge sugli idrocarburi e proteggere i loro interessi.
(9) Dichiarazione del candidato di Unione nazionale (Un) alla vicepresidenza, Carlos Dabdoub.
(Traduzione di A.D. R.)