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Chi cerca trova: anche se talvolta non trova niente, talvolta invece trova qualcosa di diverso e magari di più importante di ciò che cerca – donde il  termine serendipity nella letteratura scientifica, derivato  dall’acume del principe “ricercatore” di Serendip nel classico racconto di Walpole. Simmetricamente, chi impedisce di cercare impedisce anche di trovare (ma non sempre – v. oltre): così, per esempio, spesso si afferma con supponenza che non ci sono le necessarie prove scientifiche (trial clinici randomizzati in doppio cieco, ecc.) per legittimare le azioni terapeutiche dei derivati della cannabis. Ma facciamo un passo indietro.

Negli ultimi 50 anni –  cioè all’incirca dalla convenzione di Vienna del 1961 –  è calata una condanna senz’appello di qualsiasi sperimentazione sull’uomo con sostanze proibite illecite. Ma attraverso il progressivo e ormai massiccio accumulo di informazioni tratte da osservazioni informali, si è diffusa la convinzione che la cannabis sia efficace nel glaucoma, nel dolore neuropatico, nella sclerosi multipla, negli stati di grave malessere indotti da terapie oncologiche, per citare solo i casi più evidenti. E allora subito si è corso ai ripari: cioè quando la diga anti-cannabis ha cominciato a mostrare qualche crepa, si  sono messi a punto prodotti industriali purificati, identici a quelli naturali o in vario modo modificati, al fine di “spiazzare” gli usi dei prodotti naturali in forma di fumo o di “integratori” alimentari. 

E’ una vecchia storia: in passato alcuni  medici, per esempio, sapevano come usare, nei casi di dolore grave, la tintura d’oppio – ricca di tutto il mix di sostanze del prodotto naturale – per via orale (diluita nel tè, nell’aranciata,…). Istruivano i pazienti ad “autotarare” le assunzioni secondo necessità (cioè a farsi un sorso quando incominciava a tornare il dolore): in modo da evitare  quei “picchi e valli” di principi attivi nei liquidi dell’organismo che sono in buona parte responsabili di tolleranza e dipendenza nei soggetti trattati con le iniezioni ripetute del principio attivo puro, la morfina. Nel caso degli oppiacei, metodi analoghi si sono fatti strada –  poco poco, piano piano, soprattutto in Italia –  nell’armamentario della medicina ufficiale; ma per carità, sempre e soltanto con prodotti forniti dall’industria, nel rispetto della biblica condanna viennese dei prodotti naturali. 

Per i derivati della cannabis siamo ancora al paleolitico, anche se “c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico” (Carlo Erba aveva iniziato la sua scalata avviando nel 1849 il commercio di preparazioni galeniche a base di canapa nella sua farmacia milanese). Negli Usa, la Dea (Drug Enforcement Administration ) ha autorizzato 109 ricercatori a svolgere studi sulla marijuana e sui suoi derivati : di questi, solo 14 sono autorizzati a studiare gli effetti della marijuana fumata sugli esseri umani – una vera miseria rispetto agli eserciti  armati di tutto punto che battono a tappeto ogni minimo aspetto del rapporto droga-cervello, onde legittimare i modelli medico-riduzionistici delle tossicodipendenze. E infatti la gran parte dei ricercatori autorizzati svolgeranno studi su modelli animali per verificare gli effetti negativi della canapa, non per verificare quelli terapeutici. E da più parti si incomincia a pensare a quale possa essere la via d’uscita da questa situazione balorda, che penalizza gravemente un gran numero di potenziali beneficiari degli usi medici della  cannabis