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no-alcool.jpgMi occupo di aspetti sociali legati al consumo di bevande alcoliche ormai da vent’anni, ma quando mi è stato chiesto un articolo sull’emendamento bipartisan che introduce il divieto di vendita ai minorenni, approvato dalla Commissione Affari Sociali della Camera, sono stata tentata di rifiutare perché la complessità dell’argomento è difficilmente sintetizzabile in un breve articolo.
Comincio sgombrando il campo dagli equivoci. Le evidenze scientifiche indicano chiaramente che i ragazzi dovrebbero astenersi dal consumare bevande alcoliche prima dei 16 anni e gli organismi internazionali invitano gli Stati ad assumere politiche che riducano l’accessibilità all’alcol, in particolare da parte della popolazione giovanile, anche attraverso la regolamentazione dell’età consentita per l’acquisto di bevande alcoliche. Non si può inoltre non pensare alla responsabilità di chi vende alcolici davanti a notizie come quella di un sedicenne che ha rischiato di morire, abbandonato per strada dagli amici spaventati dal suo stato di coma etilico.
Perché dunque resto perplessa di fronte a questa decisione? Innanzitutto perché in Italia il divieto di somministrare alcolici ai minori di 16 anni è in vigore fin dal 1931 e nel 2011 una circolare del Ministero dell’Interno lo ha esteso alla vendita nei negozi, anche se tale norma è stata, fino a pochi anni fa, totalmente ignorata (nel senso etimologico del termine) non solo dai giovani, ma anche da operatori sociosanitari e gestori di locali pubblici. Solo in tempi recenti è aumentata la conoscenza dell’esistenza della legge, ma non ancora la sua concreta applicazione.
Il primo dubbio è dunque spontaneo: perché, prima di elevare l’età non avviare una politica di controllo sull’applicazione della norma in vigore, valutandone gli effetti?
E’ diffusa la convinzione che a norme più severe e applicate con rigore corrisponda una minore rilevanza del bere eccessivo. Eppure non sempre è così. Gli abusi alcolici tra i giovani nei paesi mediterranei sono infatti inferiori rispetto a quelli di Gran Bretagna, paesi baltici e scandinavi, dove i limiti di età sono più elevati e la norma è applicata con rigore; e non sono superiori a quelli degli Stati Uniti, dove per bere occorre aspettare i 21 anni.
E’ lecito dunque domandarsi quali altri meccanismi di regolamentazione agiscano sui consumi alcolici, nonché quali possono essere gli effetti non previsti delle norme. E’ anche lecito chiedersi come e dove si procurino gli alcolici i tanti ragazzi che si ubriacano regolarmente in paesi dove tale divieto è seriamente in vigore e quale significato assuma il consumo di una sostanza “proibita” rispetto a una legale.
Ritengo dunque che, prima di elevare l’età di accesso all’alcol, sarebbe più opportuno procedere in modo graduale, attraverso una seria applicazione delle norme in vigore, attuando controlli sia nei locali pubblici che nei negozi. Una scelta coraggiosa sarebbe poi quella di investire risorse per indagare quello che recentemente alcuni colleghi scandinavi hanno definito “il mistero italiano”, una cultura del bere che a dispetto di quanto si creda continua a essere molto diversa da quella del resto dell’Europa, al fine di individuare politiche sull’alcol appropriate ed efficaci.