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Nel numero di settembre-ottobre 1990, a pagina 6, la rivista dell’ONU Development Forum pubblica un articolo di Zoraida Portillo: “I piantatori di coca non riescono a trovare compratori per i raccolti alternativi”. Migliaia di coltivatori di coca della Valle dello Huallaga in Perù erano stati convinti dal loro governo e dall’UNFDAC, il fondo delle Nazioni Unite per il “controllo” dell’abuso di “droga”, a coltivare, al posto della coca, una pianta chiamata achiote utilizzabile per produrre coloranti e farmaci. Al momento del raccolto, e con le prime 11 tonnellate di achiote pronte da vendere, quei contadini avevano dovuto improvvisamente scoprire che “apparentemente non c’era mercato” per il loro prodotto. Sorry, ci spiace tanto per voi, ma a noi il vostro achiote proprio non serve… No, non sappiamo a chi può interessare… (Bobby, scusami, ma che c… è ‘sto achiote???). Insomma, quella volta andò così. Errare humanum. Ma noi sappiamo riconoscere un errore e nessuno ha mai più proposto coltivazioni di achiote a quei contadini!

LE PIANTE MALEDETTE DA DIO E QUELLE BENEDETTE DAGLI USA
Piuttosto, voi che criticate sempre, perché non raccontate che ad altri contadini, a cui era stato offerto di coltivare tabacco al posto della coca, quell’anno andò molto meglio? Il tabacco si vende sempre benissimo. Certo, voi rompiscatole potreste dire che non è proprio bello sostituire la “loro” droga con la “nostra” solo perché noi siamo più grandi e più forti e abbiamo fatto noi la legge che mette la coca fra le piante lontane da Dio e il tabacco fra quelle vicine agli Stati Uniti. Oppure ci potreste domandare quale delle due droghe, tabacco o coca, è realmente più dannosa alla salute e più costosa per la società. Ma insomma!, dietro la coca c’è la mafia, la corruzione, la violenza. Dietro il tabacco la trasparenza delle multinazionali, la limpidezza dei monopoli di stato, i miliardi regalati disinteressatamente per sane e salutari manifestazioni sportive. Certo, voi sconsiderati dite che è la coca illegale, come la vogliamo noi oggi, ad avere quel quid in più del dovuto di impatto sull’ordine sociale e di pericolosità per il consumatore. O che i costi sociali e sanitari – il numero di morti e le spese per l’assistenza medica – dell’uso di tabacco sono senza confronto più alti di quelli di tutte le droghe illegali messe insieme. Che Freud si faceva di cocaina, ma morì dopo anni di tormenti per un cancro provocato dal tabacco… Ma, insomma, non ci rompete le scatole, i vostri discorsi non hanno senso: se l’ONU o gli USA o qualunque Paese civile considerano un progresso la coltivazione del tabacco rispetto a quella della coca una ragione ci sarà.

VENT’ANNI DI FALLIMENTI
L’UNFDAC e gli altri programmi “antidroga” negli ultimi vent’anni si sono basati su tre politiche fondamentali di controllo dell’offerta: la distruzione delle coltivazioni, il controllo delle sostanze chimiche necessarie per la raffinazione delle droghe naturali e per la produzione di droghe sintetiche, e la sostituzione delle colture illecite con colture lecite. Nessuna di queste politiche sembra aver dato risultati particolarmente positivi, e i numeri – che citiamo più avanti – sono lì a provarlo. Alla fine di tutto, il problema è molto umano: se creiamo delle galline che fanno uova d’oro, ci saranno sempre persone che nei fatti – anche se magari non nelle parole – le difenderanno ad ogni costo. Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la storia di questi interventi. Per parlare della distruzione delle coltivazioni, si dovrebbe aprire l’immenso capitolo della deforestazione continua alla ricerca di nuove aree, del danno ecologico dei diserbanti o persino, come è stato a volte proposto, dei rischi dell’introduzione artificiale di parassiti delle piante. Per parlare del “controllo” sui precursori chimici, si dovrebbe dire che quelli veramente importanti sono anche così abbondanti sul mercato, e prodotti in così tanti Paesi, da essere assolutamente incontrollabili. Non risulta infatti che grosse partite di foglie di coca o di oppio siano mai state perdute per l’improvvisa mancanza delle sostanze necessarie alla produzione di cocaina o eroina, come l’etere o l’anidride acetica. E quanto ai prodotti più avanzati (l’LSD, le feniletilamine), anche l’ultimo rapporto ONU riconosce la crescita esponenziale della disponibilità di droghe sintetiche di ogni genere. Ultimamente – con la nomina di Pino Arlacchi – sembra che l’ONU voglia di nuovo privilegiare, e ampiamente finanziare, le politiche di sostituzione delle colture: ma anche con queste, quali risultati pratici si sono ottenuti in passato? A parte il fatto non marginale del “cosa” produrre e del “come” e “a chi” venderlo, ben esemplificato dal caso achiote; a parte il fatto che ridurre la disponibilità di sostanze naturali o semi-sintetiche potrebbe, alla lunga, persino rivelarsi controproducente, lasciando gli spazi di mercato solo a sostanze totalmente sintetiche, magari più pericolose; a parte il discutibile credito politico aperto da Arlacchi (ONU) ai Talebani, che hanno fatto carta straccia della Dichiarazione (ONU) dei Diritti dell’Uomo, alla fine bisogna guardare ai numeri. E allora non si può non osservare che anche se qualche volta i risultati sembrano localmente incoraggianti, l’esame dei dati globali rivela una dura realtà. L’insieme dei molti programmi di sostituzione (la Thailandia del nord, dove il primo progetto risale al 1969, la valle dello Swat e il distretto di Dir in Pakistan, le Yungas e il Chaparé in Bolivia, l’Alto Huallaga in Perù, e ancora la Birmania, il Laos…) non ha portato ad alcun risultato visibile sull’offerta di droghe.

MOBILITÀ E CRESCITA DELLA PRODUZIONE
Il Dipartimento di Stato USA, che sorveglia anno per anno le coltivazioni illegali e pubblica le proprie stime sulla produzione (totale e Paese per Paese ), dà per gli ultimi 10 anni l’andamento del potenziale produttivo globale di coca e oppio pubblicato nella tabella in questa pagina.Ma quello che è più interessante – e che ci fa essere negativi su qualunque programma di sostituzione – è vedere con che facilità e velocità varia e si sposta la produzione. Consideriamo una pianta annua come il papavero. La Birmania, un produttore poco efficiente ma con ampie superfici utilizzabili, sale in soli tre anni (1987-1989) da 835 a 2430 tonnellate di oppio e oscilla poi sempre intorno a quei livelli (si noti che la stima ONU per il 1979 era di sole 150-170 tonnellate). Il Pakistan, che nel 1979 fa l’ultimo raccolto legale di circa 800 tonnellate di oppio (allora lo si vendeva liberamente negli opium shops), e che a quel tempo aveva al massimo 5000 consumatori di eroina, nel 1987 crolla a 205 tonnellate di oppio prodotto, mentre i consumatori di eroina sono già saliti a oltre un milione. Nel 1996, l’oppio prodotto in Pakistan è solo 75 tonnellate circa, ma il numero di consumatori di eroina è ormai il più alto del mondo, probabilmente oltre un milione e mezzo. Chi li fornisce? Semplice: la produzione di oppio si è solo spostata oltre confine in Afghanistan, dove supera ogni record precedente e passa dalle 200 tonnellate del 1980 alle 600 tonnellate del 1987, alle 1230 del 1996 (dati US Department of State, cit.). Anzi, secondo l’Observatoire Géopolitique des Drogues (OGD) di Parigi, che cita studi ONU effettuati sul campo, i dati USA sono in forte difetto, e l’Afghanistan avrebbe superato la Birmania già nel 1994, con 3200-3300 tonnellate di oppio. E l’oppio afghano non è consumato come tale, ma viene in gran parte trasformato in eroina per il Pakistan, per l’India, per l’Iran, per la Russia e per l’Europa…Inoltre, negli ultimi anni – nonostante la (o forse a causa della?) “guerra alla droga” – ricompare una significativa produzione di oppio in Cina e in Vietnam. In India – grande produttore “legale” – parecchie decine di tonnellate di oppio arrivano sul mercato illecito. Dell’Iran si sa poco, ma le voci non sono buone… E, come se non bastasse l’Asia, dal 1995 anche la Colombia diventa produttrice di oppio, e subito supera il Messico, fino ad allora unico coltivatore significativo di papaveri in America. Coltivazioni sperimentali vengono segnalate anche in Venezuela. Ma la vera novità, se confermata, sarà l’Africa. Una volta il papavero era coltivato solo in Egitto, soprattutto nel Sinai. Oggi le coltivazioni si estendono anche nelle regioni dell’Alto Nilo. Ma, soprattutto, il papavero è arrivato in Africa occidentale: dal 1993 ci sono conferme ufficiali di coltivazioni di papavero in Nigeria, Benin e Togo, e segnalazioni non confermate in Guinea, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio e Ciad. Anche la coca sarebbe in fase di sperimentazione in Nigeria.L’hanno chiamato “effetto materassino di gomma”: schiacci qui e si gonfia là. Convinciamo la Thailandia a fare sul serio con l’oppio? Va bene ai coltivatori in Birmania. Si crea l’allarme sul Pakistan? E sboccia il papavero in Afghanistan, che in meno di dieci anni (ed è stata una bella gara) supera la Birmania. Intanto, si cominciano a coltivare papaveri in Colombia e in Africa, dove prima nemmeno se li sognavano. È il mercato, bellezza. Ma ha senso tutto questo? Il rapporto ONU del 1997 (World Drug Report, Oxford University Press) dopo aver ammesso che, nonostante tutti gli interventi, dal 1985 a oggi la produzione di foglie di coca si è più che raddoppiata e quella di oppio più che triplicata (pag. 17-18), dice: “Le sostanze psicoattive sono state usate fin dall’antichità all’interno di pratiche ben definite e socialmente integrate di tipo medico, religioso o cerimoniale. Questi modelli tradizionali sono stati ampiamente sconvolti nel corso di questo secolo (…) e sono stati sostituiti da modalità d’uso degenerate e non culturalmente assimilate” (pag. 45). Ma come mai è successo tutto questo? Non è stata proprio la destrutturazione violenta dei mercati tradizionali locali in nome del proibizionismo e della “lotta alla droga” che ha ucciso le tradizioni e ridotto l’uso delle sostanze naturali grezze, mentre ha favorito ovunque il ricorso agli alcaloidi? Valga, solo per questi ultimi anni, il caso citato dell’eroina in Pakistan, ma lo stesso si potrebbe dire per l’Iran, la Birmania, l’India, la Thailandia…

I CAVOLI THAILANDESI
Proprio la Thailandia, (cfr. OGD, Atlas des drogues, Paris, PUF 1996, p. 118-9), è un caso ancor più illuminante sugli effetti perversi delle politiche di eradicazione. In quel Paese, il fumo dell’oppio è rimasto legale, sotto un monopolio di stato, fino al 1959. Ancora nel 1970, la Thailandia produce circa 130 tonnellate di oppio, per lo più per il consumo interno. In risposta alle pressioni internazionali, e grazie a notevoli finanziamenti, il governo prende molto sul serio l’eradicazione del papavero, e negli ultimi 10 anni la produzione annuale oscilla fra le 20 e le 50 tonnellate La Thailandia è fin dal 1969 il primo Paese interessato alla sostituzione delle colture di papavero con alberi da frutta e ortaggi. Il suo sistema stradale è infatti l’unico del sud-est asiatico a permettere il trasporto di merci deperibili dalle campagne alle città. Ma non è tutto oro quel che luccica. Per esempio, dal 1984, nella regione di Pa Kluay, un progetto thai-norvegese ha portato all’eradicazione forzata e alla sostituzione dei papaveri con i cavoli presso i contadini Hmong. I Hmong, che coltivano con la tecnica del “taglia e brucia” – e non solo per motivi di tradizione e di cultura, ma anche per motivi pratici legati alle caratteristiche dell’ambiente – hanno distrutto 12 volte più foresta per coltivare i cavoli di quanta ne avessero distrutta prima per coltivare papaveri. Inoltre, i cavoli richiedono molta più acqua dei papaveri, e quindi torrenti e ruscelli della zona sono stati deviati verso i campi, e non portano più l’acqua nella bassa valle di Mae Soi, i cui 11.000 contadini ora soffrono per la siccità. I cavoli hanno bisogno di molto più concime chimico dei papaveri, e questo ha creato problemi di inquinamento. I cavoli sono molto più deperibili dell’oppio, e devono essere venduti subito: sono quindi soggetti al mercato del giorno, e il contadino non può decidere di rinviare la vendita al momento migliore. Ma ci sono anche altri effetti indesiderabili. Ancora nel 1983, i contadini Hmong della regione producevano praticamente tutto l’oppio necessario al consumo locale (medico o quasi-medico, rituale, per le feste religiose…): 32 tonnellate all’anno per circa 27.000 consumatori (su 400.000 abitanti). Fra il 1985 e il 1988, la produzione di oppio è stata di circa 25 tonnellate all’anno, insufficiente per le richieste, e il deficit è stato praticamente coperto dall’arrivo di eroina birmana. Per di più, mentre gli anziani si accontentano di fumare l’eroina, i giovani hanno imparato a iniettarla, in pessime condizioni igieniche, che hanno portato anche alla diffusione (specie dopo il ritorno ai villaggi di ex-prostitute da Bangkok o Chiang Mai) di epatite e AIDS. Persino in un rapporto dell’UNDCP si legge che il progetto di eradicazione dei papaveri, alla fine, ha contribuito ad aggravare i problemi locali della tossicomania, favorendo il traffico di eroina, prima inesistente, presso le etnie Hmong e Karen. Mentre gli Akha – il gruppo meno numeroso e, per tradizione, più forte consumatore di oppio -, con la diffusione di malattie mortali come epatite e AIDS, sono ora addirittura minacciati di sparizione.

Stima sul potenziale produttivo mondiale di coca e oppio 1987-1996 (in tonnellate)
anno FOGLIE DI COCA OPPIO

1987 291.100 2.242

1988 293.700 2.590

1989 298.070 3.698

1990 306.170 3.257

1991 330.740 3.486

1992 265.500 3.389

1993 271.700 3.675

1994 290.900 3.417

1995 309.400 4.165

1996 303.600 4.285

Fonte: US Department of State, International Narcotics Control Strategy Report 1997