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Fa bene, caro presidente Margara, a frenare gli entusiasmi che la sua nomina al vertice delle carceri italiane ha suscitato. Fa bene a diffidare delle eccessive aspettative che l’hanno accompagnata, perché i primi movimenti che il suo arrivo alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta provocando non sono affatto rassicuranti. La sua nomina, in verità, ha stupito non poco quanti seguono le cose del carcere nel nostro Paese. Nessuno si aspettava che nell’Italia della guerra alla criminalità organizzata, degli umori giustizialisti di Tangentopoli, della paura del tossicodipendente e dell’immigrato, potesse ancora accampare diritto di parola quella cultura della umanizzazione della pena di cui la sua storia professionale è viva testimonianza.

UN INSOLITO CORAGGIO POLITICO

Nessuno credeva che un sistema politico che ha tanto investito nelle politiche repressive, che fa massicciamente ricorso alla risorsa penale nelle sue strategie di costruzione del consenso, potesse collocare il maggiore esponente della cultura della riforma carceraria a capo del governo delle carceri. Bisogna riconoscere che c’è stato, finalmente, un po’ di coraggio in questo passaggio della politica. Ma, per esperienza, purtroppo sappiamo che basta assai poco (una singola evasione, un incidente o, com’è storia di questi giorni, una polemica strumentale sull’applicazione della legge penitenziaria), perché quel po’ di coraggio politico faticosamente costruito, rischi di venire rinnegato. La storia delle riforme carcerarie lo insegna: per ogni passo in avanti, spesso ne seguono prontamente due all’indietro. Il disegno riformatore di Alessandro Margara (perché non c’è dubbio che sarà tale), dunque, non potrà non scontare momenti di impopolarità, stanti le politiche criminali italiane di questi anni, caratterizzate da una produzione normativa viziata da esigenze di risposta simbolica alla crisi sociale e politica, condizionata dal bisogno di trasmettere messaggi rassicuranti ad un’opinione pubblica impaurita nell’immediato e insicura del proprio futuro. Però, a questa opinione pubblica, e a quella stessa politica che l’ha investita di questo compito, qualcuno deve spiegare e ripetere che le grandi e enfatizzate emergenze criminali hanno, in realtà, riempito le nostre carceri soprattutto di tossicodipendenti e immigrati; che i “tangentisti” in prigione si contano sulle dita di una mano, mentre dietro il clamore di questa stagione politico-giudiziaria si è consumato il più grande processo di incarcerazione che la storia contemporanea del nostro Paese ha conosciuto; perché i detenuti sono passati delle 26.000 unità del 1990 alle 50.000 di adesso; perché, in realtà, le persone che ruotano intorno al carcere sono 70.000, in quanto nell’area penale esterna ci sono oramai 15.000 affidati in prova e 3000 semiliberi. Va ricordato, a chi decide le politiche sulla giustizia, che da quando il nostro sistema esecutivo ha introdotto i princìpi della decarcerizzazione, la massa complessiva dei controllati penalmente si è triplicata; e ciò non è il frutto temporaneo di una fase eccezionale, ma la semplice espressione di un allineamento dell’Italia ai tassi di carcerazione degli altri Paesi occidentali. Probabilmente, da questa posizione sarà difficile recedere, almeno nel medio periodo.

AL SUD ANCORA MENO DIRITTI

Questo, però, comporta la necessità di pensare a un carcere che deve ospitare non meno di 100.000 ingressi l’anno e 50.000 presenze giornaliere. E non vorremmo che, dietro la grande enfasi che la politica sta dando alla depenalizzazione e ai processi di decarcerizzazione, si nascondesse un profondo disinteresse per il nucleo duro del carcerario, gli istituti di pena. In questi ultimi anni, la coltre di opacità che il nuovo carcere speciale (art. 41 bis) ha sparso intorno alle nostre galere ha creato una forte regressione delle condizioni di vita negli istituti. A essere colpiti da questa ondata restauratrice, non sono state solo le fasce criminali forti, cui si applica il 41 bis, ma il carcere nel suo complesso, con un effetto di trascinamento verso forme generalizzate di esercizio del potere disciplinare, sempre più dispotiche e arbitrarie. La facoltà interpretativa cui ha fatto largo ricorso la magistratura di sorveglianza, unita alla personalizzazione della direzione amministrativa delle carceri, hanno creato una situazione in cui esistono tanti ordinamenti penitenziari quanti sono gli istituti carcerari. Sicché, accade che se un cittadino detenuto ha la fortuna di capitare in un carcere toscano, potrà coltivare la realistica aspettativa di uscire in permesso premio a un quarto di pena espiata e in semilibertà a metà pena; potrà forse incontrare i suoi bambini in un’area verde, abbracciarli e regalargli biscottini e caramelle; potrà telefonare alla famiglia quattro volte al mese e sperare di contattare una cooperativa sociale che gli offra un lavoro. Se questo stesso detenuto ha la sventura di capitare in un carcere del Sud, invece, gli potrà accadere di aspettare diversi mesi per conquistarsi il diritto delle cosiddette telefonate premiali, cioè la possibilità di sentire al telefono per sei minuti i propri cari due volte al mese.

UNA PERICOLOSA DERIVA CORPORATIVA

Ad accogliere la grande massa dei diseredati che arrivano nelle nostre carceri ci sono 34.000 posti letto, 44.000 agenti di polizia penitenziaria e una sparuta pattuglia di operatori del trattamento. Il confronto con le situazioni di altri Paesi dell’occidente europeo aiuta meglio a capire la particolarità del caso italiano. Due soli esempi: – in Germania per custodire 60.000 detenuti vengono impiegati 26.000 addetti alla sorveglianza; al contempo, vi sono 9500 addetti alle funzioni trattamentali; – in Francia vengono ritenuti sufficienti 19.000 agenti per assicurare la sicurezza nelle carceri che ospitano 58.000 detenuti; le unità di personale socio-educativo sono 6500. A partire dall’evidenza dei numeri, il carcere nel nostro Paese svela le sue funzioni reali: esso prevalentemente custodisce e controlla (44.000 “custodi”) e, residualmente, si predispone ad ascoltare e sostenere le persone recluse (appena 1400 tra educatori ed assistenti sociali). L’apparente paradossalità della situazione italiana in cui, nonostante l’elevato rapporto tra agenti e detenuti, si continuano ad assumere poliziotti penitenziari a colpi di decreti da un migliaio di unità all’anno, è il segno tangibile di ciò che questa Amministrazione ha fatto negli ultimi anni: riprodurre, in forma esponenziale, le sue più antiche vocazioni repressive attraverso un’assoluta egemonia delle ragioni dell’ordine e della sicurezza. La pacificazione delle carceri operata dalla legge “Gozzini” e la montante ondata punitiva proveniente dell’opinione pubblica nazionale ha posto l’Amministrazione penitenziaria al riparo da pressanti esigenze di governo interne e da ogni forma di controllo democratico esterno, in particolare al Sud. Ciò ha trasformato il carcere in un territorio dove scorrazzano indisturbati voraci appetiti corporativi che si muovono in una logica esclusiva di accumulo di privilegi. I detenuti, in tutto questo, sono diventati l’ultimo dei problemi. La riforma del corpo degli agenti di custodia e la conseguente sindacalizzazione di questo soggetto, frutto di autentiche istanze di democratizzazione di questo contesto istituzionale, è precipitata su terreni di lotta corporativa che hanno soffocato ogni residuo progressivo che quel provvedimento legislativo conteneva.

SENZA RIGORISMO, NIENTE CARRIERA

Lo sgelamento delle carriere del personale dirigente del neonato Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria operato dalla riforma, con l’ingresso dei “direttori” negli uffici centrali e periferici del Dipartimento, ha portato questo personale in una situazione di accesa concorrenza per la conquista di una poltrona ministeriale che significa, almeno per loro, la possibilità concreta di “liberarsi della necessità del carcere”. Condizione essenziale perché si possa ambire a questi salti della carriera è che nei loro curriculum personali non vi siano “incidenti”, cioè che negli istituti sottoposti alla loro direzione non si verifichino problemi rilevanti sotto il profilo della sicurezza. Questo ha alimentato e rafforzato quella cultura gestionale che valuta positivamente le situazioni in cui “non succede nulla” piuttosto che quelle che possono vantare “eventi significativi”. Un direttore viene giudicato sulla base del criterio “del non aver mai fatto parlare di sé”, piuttosto che della valutazione oggettiva dell’aderenza alla legge del suo operato. Questa situazione ha ancor più accresciuto il potere della polizia penitenziaria, vera ed unica garante della sicurezza, dell’ordine e della disciplina negli istituti e peggiorato progressivamente i livelli di vivibilità della condizione detentiva. La forza di questo soggetto istituzionale, una forza incontestabile sia per i numeri, 44.000 agenti, che per le funzioni, ha appiattito questa Amministrazione su posizioni di pura separazione e conservazione di sé stessa. La gran parte delle risorse economiche e umane pervenute ai penitenziari negli anni Novanta sono andate quasi esclusivamente a rafforzare le impellenti ragioni della sicurezza. I benefici economici, normativi e di carriera conquistati dai neonati agenti di polizia penitenziaria hanno conservato a questo personale un sistema previdenziale speciale e veloci automatismi nei passaggi di carriera. La tradizionale separatezza di questo corpo militare dal resto del mondo del lavoro si è così rafforzata, consegnando grande visibilità e credito alle loro rappresentanze sindacali. Si tratta di un sindacalismo autonomo, fortemente corporativo, che ha alimentato ideologie dell’appartenenza militaresca che stanno producendo profondi e pericolosi guasti. Il potere di condizionamento che questi sindacati esercitano sulle scelte dell’Amministrazione è veramente enorme e può essere ritenuto senza dubbio responsabile di una parte importante dei regimi disciplinari.

L’ECLISSI DEL TRATTAMENTO

È questo il quadro in cui si è consumata quell’eclissi delle “ragioni della Gozzini” che tanti osservatori ed operatori oggi denunciano. Il declino dello spirito della riforma ha trascinato con sé verso il basso tutto ciò, culture e soggetti, che da quella stagione era nato, in primo luogo gli operatori della cosiddetta area trattamentale. È singolare la parabola discendente che ha caratterizzato il ruolo e la presenza di questi operatori nel nostro sistema dell’esecuzione penale. Lo scambio pena-comportamento ha significato l’appiattimento delle loro funzioni di sostegno e promozione della persona detenuta alla pura logica del “patto di governo istituzionale”. La “Gozzini”, da questo punto di vista, ha esasperato e promosso a generalità questo nuovo modello di governo del carcere. Pacificato così il carcere, questi soggetti hanno pagato i costi maggiori di un sistema fortemente diseguale (solo i più dotati di risorse individuali riescono ad accedere ai benefici penitenziari) e differenziato (al Sud, specialmente negli ultimi anni, le tendenze controriformistiche sono state fortissime). Schiacciati da questa tenaglia (esasperazione dei contenuti premiali del nuovo ordinamento penitenziario e crescita di peso delle ragioni della sicurezza), progressivamente gli operatori sono diventati sempre più subalterni alle logiche custodiali e repressive. Oggi, quest’area del personale, che ben rappresenta simbolicamente una stagione riformista chiaramente in crisi, rischia di scomparire definitivamente nel più assoluto silenzio. Le ipotesi di ulteriore ampliamento degli organici della polizia penitenziaria, le forti pressioni sindacali per il riconoscimento a questo corpo di una propria autonoma dirigenza, il ridimensionamento degli organici delle figure trattamentali già operato dal ridisegno della pianta organica del DAP, sono segnali inequivocabili dell’eclissi definitiva di questo soggetto.

LOGICHE DI POTERE

Ancora una volta, tutto ciò che accade dentro ed intorno al carcere sembra obbedire esclusivamente a logiche di potere, dove ogni tentativo di promuovere discorsi di qualità deve necessariamente arretrare di fronte all’endemica conflittualità tra gli uomini in divisa (gli agenti) e quelli in doppio petto (i direttori), che alimenta unicamente la sfrenata rincorsa all’accumulo di potere, prestigio e reddito. Su questo è indispensabile una chiara inversione di marcia, rimettendo le mani, coraggiosamente, sugli assetti della dirigenza e sul peso funzionale della polizia penitenziaria. Un chiaro segnale di svolta potrebbe essere dato proprio nel senso di rafforzare, all’interno degli istituti, quell’area del personale che è deputata alla realizzazione dei princìpi dell’umanizzazione del trattamento. E ciò, soprattutto, attraverso una politica di assunzione di nuovo personale che deve assolutamente riequilibrare, in primo luogo, i rapporti numerici tra poliziotti e operatori del trattamento. In seconda istanza, sarebbe utile ripensare gli assetti gerarchici del carcere, con una decisa rivisitazione della figura e dei poteri dei direttori penitenziari, in ragione della costruzione di una reale autonomia del personale socio-educativo. E ciò significa, innanzitutto, pensare a un decentramento agli Enti locali delle funzioni di risocializzazione della pena detentiva, sancite dalla Costituzione, perché soltanto attraverso il concorso di diverse logiche istituzionali, di diversi orientamenti culturali e di saperi è possibile dare risposte adeguate alla ricca articolazione di soggetti e di figure sociali che oggi affluiscono nell’area del penitenziario. Troppo spesso è accaduto che si è affidata interamente la realizzazione dei contenuti della riforma alla forza e alla sensibilità che la società civile esprime nei confronti del carcere. Anche questo ha concorso a creare quella situazione di grande differenziazione territoriale dell’esecuzione penale che non fa assolutamente giustizia dei princìpi costituzionali della certezza del diritto e dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge.

Eduardo Pizzo, Gruppo di lavoro “Carcere/territorio”, Dipartimento Politiche Sociali, Camera del lavoro di Napoli