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“Ma ce l’abbiamo noi un Harald Hans Korner?” si chiede Marco, agitandosi sulla sedia, una delle venti sedie tipo ospedale che formano un cerchio nella piccola stanza del “drop in” nostrano, a Torino, in via Borgaro, periferia che più periferia non si può. Siamo lì, un pugno di operatori del SER.T., operatori di strada del privato sociale, tossici attivi in tutti i sensi – con le sostanze ma anche culturalmente, politicamente, come educatori pari nel centro a bassa soglia – utenti del drop in stesso e dell'”unità di strada”. Siamo lì, tutti seduti attorno a Wibke Rommling, ventidue anni, da Francoforte, Germania. Wibke, anellino al naso e scarpe grosse, qualche mese fa ha letto su Internet i dati relativi al nostro lavoro di strada, ha mandato una e-mail dicendosi interessata a due mesi di tirocinio da noi e, detto fatto, è approdata a Torino. Adesso siamo qui, al drop in della USL 3, e lei è al centro del nostro cerchio, della nostra attenzione, perché lavora in uno di quei famosi, “mitici” ma per noi oscuri e fantomatici, luoghi che sono le “shooting galleries”, posti attrezzati per iniettarsi eroina, per farsi. “Ma dove lo troviamo noi un Harald Hans Korner?” insiste Marco, vent’anni di roba, con il chiodo fisso di aprire una gallery qui a Torino. Il signor Korner, in effetti, è un personaggio chiave. Quando, nel 1993, la municipalità di Francoforte decise, all’interno di un articolato progetto di limitazione del danno, di aprire una serie di luoghi dove le persone potessero farsi al riparo dagli sguardi di disapprovazione dei cittadini e in modo meno rischioso, il problema era: la legge. Come da noi, anche in Germania è illegale assumere droghe illegali, e un locale che ne ospitasse il consumo non potrebbe che beccarsi una denuncia e chiudere i battenti definitivamente. Il nostro Korner, noto procuratore legale della città, ci spiega Wibke, interpellato dagli assessori interessati, deliberò che – a certe condizioni, con certe regole, per certi scopi di prevenzione e sicurezza sociale – le shooting galleries potevano non essere considerate illegali. “Insomma, una specie di Galli Fonseca tedesco” commenta Sandra, citando il magistrato curiosamente installatosi in pole position tra i tossici italiani, anche se le sue parole non hanno lo stesso effetto pratico di quelle di Hans (ben presto chiamato, confidenzialmente, così, per nome…) “Già dal 1989 – spiega Wibke – a Francoforte nacque la Montagsrunde, una sorta di tavolo municipale attorno a cui siedono amministratori locali, operatori, poliziotti e giudici, con il compito di sviluppare interventi mirati a quei tossicodipendenti in condizioni di grave emarginazione e ad alto rischio sanitario e sociale”. Il punto dolente era il Taunusanlage, un parco pubblico affollato mediamente da 1500 tossicodipendenti, di cui tra i 650 e i 1000 senza fissa dimora, e circa 300 sieropositivi. Punto dolente per i consumatori, che vi vivevano in condizioni pessime, di vero e proprio degrado, e per la cittadinanza, che si era trovata privata di un luogo che avrebbe dovuto essere per tutti, e che invece faceva paura ed era stato abbandonato. Punto dolente, infine, per la municipalità, che si trovava ciclicamente accerchiata da proteste e polemiche. Dal 1989 al 1993 prende corpo un progetto comunale “che non voleva – dice Wibke – reprimere e punire ulteriormente queste persone già così in difficoltà”. Vengono aperti drop in, con servizi alla persona, iniziative di prevenzione come lo scambio siringhe, un pasto caldo a prezzo contenuto. Molti li frequentano, il parco comincia ad essere un po’ meno affollato. Si intensificano inoltre i programmi con metadone a bassa soglia e si contattano anche i centri tossicodipendenze di altre città: infatti, una buona parte dei tossicodipendenti senza fissa dimora non è di Francoforte ma viene da fuori. La municipalità si fa carico di stimolare le città limitrofe verso l’adozione di politiche di limitazione del danno, perché si ha la percezione che molti non residenti siano attratti non solo dal mercato delle droghe – Francoforte ne è la culla – ma anche dalla buona qualità dei servizi, primo tra tutti il metadone pronto soccorso. La strategia ha buon esito, le presenza dei senza dimora diminuisce. “Oggi in città ci sono cinque drop in, più uno solo per donne – spiega Wibke – e quattro shooting galleries di cui tre ospitate nei drop in. Tutti i centri hanno posti letto d’emergenza, assistenza medica, scambio siringhe, aiuto psico-sociale in tempo reale, servizi alla persone come docce, lavanderia, stireria. In ogni drop in, inoltre, c’è una équipe di operatori per le domande di chi vuole smettere e intraprendere un programma drug free”. I volti si fanno più attenti quando Wibke cita alcuni servizi molto sensati ma così poco discussi da noi: l’aiuto economico finalizzato all’estinzione di debiti con la piazza, per esempio, per facilitare la rottura dei vincoli con il mercato illegale, oppure il pronto soccorso metadonico (“Quando usciremo dal bla-bla tra di noi e lo urleremo come BISOGNO?!?”, si incavola Sandra). Ma torniamo alle shooting galleries (“Come diavolo le chiameremo qui da noi?” si interroga Rita in un impeto di ottimismo). C’è un rapporto stretto tra operatori di strada e galleries: fanno di tutto per incentivarne l’utilizzo, basti pensare che il progetto “Eastside” della cooperativa IDH – che ha aperto la prima gallery nel 1994 – mette a disposizione un bus navetta che fa la spola con la stazione ferroviaria, molto frequentata dai consumatori. Chi lavora nelle galleries? Operatori di strada, educatori, studenti in fase di tirocinio, infermieri. “Dove lavoro io – dice Wibke, che è educatrice – al drop in della Drogennotdienst (DND) la gallery è aperta dalle sei del mattino fino a mezzanotte. Ci sono dodici posti a sedere e forniamo tutto il materiale per farsi in modo igienico. Dopo l’uso, gli utenti possono stare e rilassarsi negli spazi di socializzazione del drop in”. Wibke ci passa delle foto: un bancone d’acciaio con candele, specchi per chi si fa nelle vene del collo, cucchiaini, materiale sterile. Le foto passano di mano in mano. “Cazzo, però sembra l’ambulatorio dove vado a fare i prelievi”, “Freddino, eh?”, “Dì pure una catena di montaggio…”, “Sarà sempre meglio della merda su cui cammini sulle rive della Dora”, “Puoi dirlo forte…”. Hans, il nostro giudice che ha legalizzato le shooting galleries ha dovuto lasciare una pesante eredità di regole, e anche belle rigide, da far rispettare, per far passare la sua decisione. “I consumatori non possono dividere la dose con altri, né offrirla gratuitamente e non possono aiutare un altro a farsi – elenca Wibke -, non possono regalare i propri filtri, né usare una lattina invece del cucchiaino in dotazione. Alla fine dell’operazione, devono pulire bene il luogo che hanno utilizzato”. “Sono proprio tedeschi – commenta Sandra – figurati come sarebbe da noi…”. “Guarda che ci si può anche educare, se ti interessa che un servizio non venga chiuso”, ribatte Marco. Gli operatori, oltre ad intervenire in caso di overdose o di malessere, dovrebbero anche controllare che nessuno entri con più di una dose personale e che, al momento dell’uscita, i consumatori non si siedano subito al volante. Oltre a sbattere fuori chi non rispetta le regole, e tenerlo lontano dal servizio magari per qualche giorno. “Secondo me questo non è completamente giusto – commenta la nostra ospite -, gli operatori e gli studenti che lavorano in una gallery non dovrebbero fare i cani da guardia dei consumatori. Preferirei avere con loro un rapporto più intenso e confidenziale, senza barriere inutili e stupide”. Wibke sottolinea che c’è anche un lavoro educativo da fare nelle galleries, come l’educazione sanitaria, l’ascolto, il counselling, la facilitazione nell’accesso a programmi metadonici, la mediazione dei conflitti tra utenti. E questo sembra piacerle di più del far rispettare le regole del signor Hans. “Beh, cosa aspettiamo?”, si chiedono tutti i volti in cerchio. “Qualcuno direbbe che sono dei ghetti per far star tranquilli i bravi cittadini. Insomma, che è una roba di destra”, dice Rita. L’osservazione aleggia un po’, lì nel cerchio. Come tutte le politiche di limitazione del danno, anche le shooting galleries cercano di tenere insieme capre e cavoli, benessere dei consumatori e sicurezza dei cittadini. E’ un male? “No, se serve a evitare conflitti inutili”, dice una voce dal cerchio. “E poi, cosa credete, che a noi faccia piacere bucarci sulla panchina davanti ai vecchietti che giocano a bocce? o dentro un portone, come dei ladri? e in modo pericoloso, poi… È anche una questione di dignità!”, incalza Marco, ormai lanciato verso una campagna per l’apertura di una shooting gallery a Torino. È aperto il dibattito.