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L’ormai decennale rivendicazione di un provvedimento generale per la soluzione politica degli anni Settanta, i ripetuti tentativi di porre all’ordine del giorno del dibattito politico e del calendario legislativo una simbolica chiusura della stagione politico-processuale aperta dalle inchieste della procura di Milano sui reati contro la pubblica amministrazione, la bistrattata rivendicazione di molti detenuti che – nelle more della sempre più incerta applicazione della legge Gozzini – chiedono un indulto generalizzato di tre anni per ridurre il carico di pene troppo lunghe: da versanti diversi, si affaccia il tema degli istituti di clemenza penale previsti dall’ordinamento costituzionale. I sì e i no alle successive rivendicazioni sembrano però riprodurre le statiche divisioni tra innocentisti e colpevolisti, ovvero tra granitici e indulgenti nell’esecuzione delle pene, a seconda del reato e del tipo d’autore, a prescindere dalle motivazioni specifiche di ciascuna perorazione di clemenza. Le giustificazioni degli istituti dell’amnistia e dell’indulto non costituiscono ragione di riflessione sulla congruità del mezzo allo scopo: se si è stati contro Tangentopoli e a fianco di Mani pulite si è contro provvedimenti di clemenza per i reati contro la pubblica amministrazione o l’illecito finanziamento dei partiti; se si pensa che le armi furono prese in mano da meri terroristi e non da compagni che sbagliavano si è contro l’indulto per i reati commessi con finalità di terrorismo; e via di seguito. Per questo, forse, è utile tornare a discutere delle finalità di questi strumenti generali di clemenza, affinché sia possibile verificarne la congruità con le singole, e affatto diverse, istanze che di volta in volta vengono affacciate. È Aristotele a lodare la prima damnatio memoriae che si ricordi nella storia: l’amnistia concessa dal democratico ateniese Trasibulo (all’alba del V secolo a. C.), osservando che gli ateniesi “seppero adattarsi alle sventure che li avevano colpiti, nel modo più nobile e più conforme allo spirito di un buon cittadino. Recentemente (il manifesto, 23 dicembre 1997), Giorgio Agamben ha scritto che “come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, infatti, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (me mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali, non avere cattivi ricordi”) nei confronti dei suoi avversari. Così facendo, i democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che era ora necessario un momento di non-memoria, di “amnistia” per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento. Non si trattava tanto, a ben guardare, di memoria e di dimenticanza, quanto di saper distinguere i momenti del loro esercizio”. Gli istituti dell’amnistia, dell’indulto e della grazia hanno una medesima origine, provenendo tutti dallo strumentario dell’indulgentia principis. In quanto tali, in una concezione pre-moderna del diritto penale essi si prestavano al libero arbitrio di un Sovrano legibus solutus. Nel nostro Paese, attraverso lo Statuto albertino e il regime fascista, tale concezione è perdurata, anche formalmente, fino all’approvazione della Costituzione repubblicana, che ha invece distinto gli istituti di carattere generale (amnistia e indulto) da quello uti singuli (la grazia), prefigurando per essi una più marcata diversificazione di finalità entro una procedura di adozione diversamente stabilita. L’amnistia e l’indulto vengono sottratte all’arbitrio del Capo dello Stato e obbligate alla procedura parlamentare (attraverso la previsione di una legge di delegazione al Presidente della Repubblica) che le qualifica, in nuce, come strumenti di politica del diritto penale. Al Capo dello Stato rimane il potere di “concedere grazia e commutare le pene”. Nel suo commento all’articolo 79 della Costituzione, Gustavo Zagrebelsky scrive de “l’uso ragionevole e l’uso arbitrario della potestà di clemenza”. “La prima ipotesi configurabile – scrive Zagrebelsky – è quella in cui la motivazione della clemenza concerna l’inopportunità o l’ingiustizia dell’applicazione della legge penale a una categoria individuata di fatti realizzati nel passato. (…) Il caso naturale di questo tipo di clemenza è quello determinato da un giudizio ora per allora di minore gravità sociale relativo ai fatti coperti dal beneficio. Tale giudizio deve essere fondato sulla considerazione di elementi che si possano considerare eccezionali, cioè presumibilmente insuscettibili di riprodursi nel futuro o difficilmente riproducibili”. “Si può altresì ritenere giustificato e ragionevole l’uso del potere di clemenza – continua Zagrebelsky – quando esso sia fondato anche solo sulla considerazione della inopportunità politica attuale delle condanne e delle pene. (…) Condizione perché ciò possa avvenire senza violazione del principio di eguaglianza è però che la sfera di applicazione del beneficio appaia oggettivamente determinabile in relazione a caratteristiche specifiche delle situazioni su cui incide”. “Sono invece ingiustificati – conclude Zagrebelsky – i provvedimenti di clemenza che non appaiano riferiti a situazioni oggettivamente diverse. In tali casi, la diversità di trattamento che deriva per fatti distinguibili (…) per essere stati realizzati subito prima o subito dopo il termine indicato dal decreto di clemenza, senza alcun aggancio a ragioni obiettive, appare chiaramente intollerabile in ogni ordinamento informato al rispetto del principio d’eguaglianza”. Sulla base di queste considerazioni di legittimità bisognerebbe valutare la meritevolezza specifica e l’opportunità politica di ciascuna proposta di amnistia-indulto. Ed è così che si può legittimamente sostenere che, alla luce della definitiva chiusura del fenomeno politico e sociale che diede vita alla lotta armata nel nostro Paese, avendo ormai i responsabili di quei fatti scontato pene che arrivano fino a vent’anni e più di detenzione, saggia misura di politica criminale sarebbe un provvedimento di clemenza con cui lo Stato rinunci al suo potere di punire a vantaggio del compiuto reinserimento sociale di alcune centinaia di persone tuttora private della libertà in ragione di fatti che appaiono sotto ogni profilo irripetibili, perché inesistente è il contesto politico-sociale in cui maturarono e senza il quale non sarebbero maturati. Purtroppo, però, il Parlamento nel 1992 pensò che l’unico freno all’uso indulgenziale dei provvedimenti di amnistia-indulto fosse l’aggravamento della procedura di adozione, fissando il quorum necessario alla deliberazione delle leggi di amnistia e/o indulto in una maggioranza pari ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Dal punto di vista dell’efficacia deflazionante, la legge costituzionale n. 1 del 1992, ha raggiunto il suo scopo, non essendo stata approvato da allora alcun provvedimento di amnistia o indulto, e si tratta ormai di un record nella storia dell’Italia unita. Ma, dal punto di vista della valorizzazione degli istituti, il record sembra nascondere un gap opposto e paradossalmente coincidente con gli abusi dei decenni passati. Se è vero – come sostiene una dottrina rigorosa nel denunciare l’arbitrio nell’adozione dei provvedimenti di clemenza generale – che, nell’unanime approvazione dei successivi provvedimenti di amnistia-indulto, nell’Italia repubblicana si sarebbe manifestata la tendenza consociativa propria della democrazia italiana, è ormai, se non altro, oggetto di discussione il fatto che il quorum così elevato previsto dalla riforma del 1992 (superiore a ogni altro e, specificamente, superiore a quello per le leggi di revisione costituzionale) rischia di produrre o la paralisi di uno strumento di politica criminale o la confusione, nel suo provvedimento di adozione, di più motivazioni eterogenee, necessarie a comporre una simile, vastissima maggioranza, con il ritorno di un effetto “consociativo” in cui ciascuna parte lo approva pro domo sua. Per rendere agibili l’amnistia e l’indulto come delicati strumenti di politica criminale, occorre dunque, dopo averli liberati da quella connotazione pre-moderna che ne faceva strumenti dell’indulgentia principis, renderli agibili nel contesto di una politica del diritto in materia penale. Perché ciò sia, certamente l’amnistia e l’indulto debbono mantenere nella prassi quei caratteri di eccezionalità che per lungo tempo sono stati disattesi; ciò non di meno è necessario – come ha proposto la Commissione bicamerale – che essi siano strumenti nelle mani di una maggioranza non occasionale, ma capace di esprimere un indirizzo politico in materia di politica del diritto penale.