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Con la decisione della Cassazione del 24 febbraio scorso, la questione giudiziaria dell’applicazione del 41bis ad Alfredo Cospito ha vissuto un passaggio forse dirimente. Sì, è vero: è appena stata presentata una istanza di sospensione della pena per motivi di salute; ci sarà un nuovo giudizio sul rigetto della revoca chiesta al Ministro della giustizia nel mese di gennaio; è pendente una procedura di fronte alla Commissione diritti umani delle Nazioni unite; probabilmente arriverà un ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Tutte legittime iniziative della difesa di Cospito, motivatamente sostenute da chi non si rassegna all’anomalia evidenziata anche dalla Procura nazionale antimafia e dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione di una misura pensata per i capi di rigide organizzazioni criminali e applicata a un esponente di una non-organizzazione ideologicamente senza capi. Tentativi ulteriori che meritano di essere esperiti, di fronte a un’applicazione di legge che a molti e molte appare come una ingiustizia. Ma accanto a essi, contemporaneamente all’estremo tentativo di tirare fuori Alfredo Cospito dal “suo” 41bis, bisogna prendere sul serio la sua battaglia contro “il” 41bis, che forse è anche il modo per salvargli la vita.

Contro la prospettiva infausta della morte in stato di detenzione di un uomo in sciopero della fame da tre mesi resta ancora l’arma della politica, finora messa da parte, nascosta dietro le schermaglie giuridiche, secondo l’ormai antica abitudine italiana alla supplenza giudiziaria. Né ha avuto fiato più lungo il tentativo del Governo di nascondersi dietro il parere richiesto al Comitato nazionale di bioetica circa la possibilità di costringere all’alimentazione forzata un Cospito che dovesse diventare incosciente, in barba all’articolo 32 della Costituzione, alla storia di Eluana Englaro, alla legge del 2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e all’equivalenza dei trattamenti rivolti ai detenuti e ai cittadini in libertà. Se anche il CNB avesse offerto il parere richiesto (il che non è stato con le “riflessioni condivise” diffuse ieri) e il Governo ne avesse tratto la legittimità di interventi salvavita contro la volontà di Cospito, avrebbe potuto attuarli solo durante un suo eventuale stato di incoscienza, realizzando un’inimmaginabile trattamento forzoso a giorni alterni: perdi conoscenza, ti alimento; ti riprendi, smetti di alimentarti; riperdi conoscenza, torno ad alimentarti di soppiatto, in un circolo vizioso senza fine in cui tanto Cospito quanto lo Stato avrebbero perso la propria dignità, ma per univoca responsabilità di quest’ultimo.

Ridare la parola alla politica significa prendere sul serio le critiche che da più parti sono venute in queste settimane all’abuso del 41bis (è lecito dubitare che tutte le circa 750 persone che vi sono costrette siano attualmente in condizioni di guidare l’azione criminale delle organizzazioni di cui pure un tempo furono a capo) e agli abusi nel 41bis (le inutili limitazioni nella vita quotidiana dei detenuti che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione che legittimano l’esistenza di questo regime). Si tratta di critiche che originano da sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte costituzionale, da rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Garante nazionale Mauro Palma che presenterà a fine mese un nuovo documento.

Non si chiedono atti di fede a nessuno, ma – ciascuna nelle materie di propria competenza – le Commissioni parlamentari possono disporre indagini conoscitive intese ad acquisire notizie, informazioni e documentazioni utili al lavoro proprio o dell’Assemblea. Perché le Commissioni giustizia di Camera e Senato, ciascuna per proprio conto o entrambe congiuntamente, non dispongono l’attivazione di un’indagine conoscitiva sulla realtà del regime del 41bis, anche al fine di valutare la opportunità di una sua riforma e della sua riconduzione alle strette necessità che lo giustificano?