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A detta dei propugnatori, la giustizia riparativa «è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva», «non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici» (Niccolò Nisivoccia, “il manifesto”, 7 luglio 2023). Puntualizzazione più che necessaria, dato che, divenuta legge organica all’interno del diritto penale, non ne costituisce una fuoriuscita, divenendo piuttosto un’articolazione complementare e persino supplementare del modello retributivo. Non risponde, insomma, a quell’esortazione a «pensare ad alternative alla pena, non solo a pene alternative» venuta dal cardinal Martini, cui pure si ispirano autorevoli fautori della nuova legge.

Nell’applicazione concreta, le relative norme diverranno semmai uno scalino (o “scalone”) in più nel già lungo e scivoloso percorso trattamentale del reo. Se la pena reclusiva è contenimento (e umiliazione) dei corpi, ora si aggiunge un’intrusione nell’anima, indagata al fine di “riscatto”: parola ambivalente che ben rende la paradossale continuità e contiguità tra giustizia retributiva e paradigma riparativo. Vi saranno peraltro sottoposti non solo i colpevoli, ma anche i semplici indagati o imputati (D.L. 10 ottobre 2022, n. 150, Titolo IV, art. 42.1.c); col rischio che tale percorso possa essere utilizzato surrettiziamente a fini di confessione e collaborazione con gli inquirenti, dato che il “Dovere di riservatezza”, la “Inutilizzabilità” e la “Tutela del segreto” (artt. 50, 51, 52) consentono eccezioni.

La normativa è, al tempo stesso, ambigua ed esplicita laddove stabilisce contraddittoriamente che: «La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione […] della liberazione condizionale». Salvo dire subito dopo che: «Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo» (Titolo V, art. 78 c.2).

Pur necessitando di una trattazione ben più ampia, si può convenire che la traduzione dei principi riparativi all’interno della “riforma Cartabia” origina da buone intenzioni. Non di meno, si può essere certi che ciò produrrà arretramento per i diritti dei reclusi e per un diritto penale minimo e mite. È stato così già in precedenza, con il “Lavoro di pubblica utilità sostitutivo” che consente di utilizzare manodopera detenuta senza alcuna remunerazione. Norma che ha comportato un «ritorno del lavoro forzato gratuito» e che costituisce un «nuovo paradigma emendativo-riparativo di giustizia: basato sull’idea che il condannato, già privato della libertà personale, debba anche “riscattarsi”» (Giuseppe Caputo, “L’altro diritto”, n. 6/2022).

Un lavoro forzato ma, naturalmente, dichiarato “volontario”. Il che dovrebbe far capire come potrà tradursi per un detenuto – ovvero, in questo caso, il soggetto debole e ricattabile – quel «consenso libero, consapevole, informato» previsto per accedere al programma riparativo, al cui termine il giudice potrà concedere una diminuzione o sospensione della pena.

La nuova legge, imperniata sulla centralità della vittima, semplicemente non tiene poi in conto che la gran parte è detenuta per le leggi sulle droghe e sull’immigrazione. Che “esito riparativo” andrebbe richiesto per quel tipo di reati? E quali le parti offese cui dare il potere, pur indiretto e mediato, di incidere sulla durata della pena?

In definitiva, si può parlare di eterogenesi dei fini, laddove la logica riparativa risulta inscritta e ancillare in una risposta penale sempre più dilatata. Nei decenni scorsi si è passati dallo Stato sociale a uno “Stato penale”. Ora vi si sta affiancando un surrogato di “Stato etico”.