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Siamo operatrici e operatori della riduzione del danno e lavoriamo a contatto con persone fragili e in situazioni invisibili ai più. In questa situazione di “emergenza” siamo, assieme ad altre categorie di lavoratrici e lavoratori, invisibili proprio come le persone cui forniamo supporto con impegno e professionalità.

Noi e i nostri clienti siamo invisibili insieme.

Vogliamo portare con forza la nostra voce e il nostro vissuto. È necessario però, per prima cosa, un chiarimento: abbiamo un problema di linguaggio, che inevitabilmente influenza la percezione e la possibilità di comprensione del fenomeno COVID-19 e ancor più del futuro che ci aspetta come individui, prima che come operatrici ed operatori. Non siamo di fronte ad un’emergenza; siamo di fronte ad una crisi, ad un cambiamento epocale nella vita di una collettività, con effetti più o meno gravi e duraturi. Il virus ha prepotentemente fatto emergere un gran numero di contraddizioni sociali, politiche ed economiche che hanno mostrato i nervi scoperti di un sistema ingiusto, iniquo e incapace di gestire l’emergenza senza disegnare all’orizzonte la carneficina sociale.

Gli ospedali pubblici delle regioni più ricche del Paese sono al collasso: mancano posti letto, personale e apparecchiature. La causa di questa situazione non è il virus, bensì il progressivo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale, sotto attacco negli ultimi decenni a favore di un processo di privatizzazione dell’accesso alla salute. La sanità pubblica soltanto può garantire, se sostenuta e finanziata, cure a tutte e tutti, senza distinzioni di portafoglio.

Noi stessi che lavoriamo nella riduzione del danno, ogni giorno sperimentiamo questa tendenza al risparmio, e assieme ai nostri clienti paghiamo il prezzi di questo disinvestimento. In questa crisi viviamo anche un paradosso: dal dicembre 2018 la riduzione del danno è un LEA del sistema sanitario nazionale per decreto del Ministero della Sanità, senza che questo riconoscimento sulla carta abbia consolidato i nostri servizi. Ancora oggi la riduzione del danno è un diritto per le persone che usano droghe riconosciuto a macchia di leopardo in Italia. E così nel pieno della crisi nessuno ha chiarito se i Drop In e le Unità di Strada, in quanto LEA, debbano essere garantiti alle persone che usano sostanze. Anche per questo i DPI sono arrivati in ritardo agli operatori di strada e della bassa soglia, complicando ancora di più la situazione e aprendo inutilmente il conflitto fra la tutela di chi lavora nei servizi e i diritti di accesso di chi quei servizi li usa.

Le misure varate nelle delibere regionali hanno incrementato la situazione disomogenea dei servizi di bassa soglia sul territorio italiano. In alcune regioni i servizi sono stati chiusi, in altre no. Il dato è che la buona volontà, la lungimiranza e la sensibilità dei gruppi di riduzione del danno e di bassa soglia ha garantito le aperture dei servizi, molto più delle indicazioni del Sistema Sanitario. La necessità di trovare un equilibrio tra il contenimento del contagio e la salvaguardia della salute delle persone fragili, degli operatori sanitari, nonché dell’intero insieme sociale ha portato fortunatamente alla riorganizzazione dei servizi di base e bassa soglia. Abbiamo visto esempi virtuosi di materiali informativi puntuali per suggerire pratiche di tutela di fronte all’epidemia, pensati assieme alle persone che usano sostanze; unità di strada che hanno garantito lo scambio siringhe perché la vita delle persone che usano sostanze non si è fermata; non sono mancate la prossimità e l’empatia, ma nemmeno le osservazioni puntuali dalla strada che possono dare il proprio contributo al contenimento del contagio. È successo anche che chi vive in strada sia stato ancora una volta additato nella caccia all’untore come il bersaglio ideale, senza considerare la vulnerabilità. È lampante come siano mancate disposizioni chiare e valide su tutto il territorio nazionale per contenere l’allarme e prevenire l’abbandono, dato che i servizi territoriali devono garantire le attività terapeutiche e riabilitative ovunque perché la salute è un diritto. La buona volontà delle operatrici e degli operatori ha mantenuto l’offerta dei programmi di scambio siringhe, l’accesso al naloxone e, cosa più importante, il contatto e l’aggancio, la vita delle persone molto più e molto prima delle indicazioni del Ministero e delle Regioni.

Un’altra contraddizione che ci tocca da vicino, in quanto professionisti della riduzione del danno, è esplosa in questi giorni: tredici detenuti morti. Tredici persone morte di carcere durante le proteste per chiedere garanzie di sicurezza e diritti, per rivendicare garanzie e tutele di fronte al potenziale contagio dietro le sbarre. Il carcere, che costituzionalmente dovrebbe avere una funzione rieducatrice, è invece un potente strumento di esclusione e annientamento. Se è vero che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, la crisi del coronavirus ha mostrato tutta l’inadeguatezza del sistema penitenziario italiano e di un Ministro della Giustizia incapace di dimostrare la minima vicinanza alle vittime (perché di questo si tratta), e ha glissato su responsabilità e dinamiche tanto che si è reso necessario un comitato per la verità sulle morti in carcere al quale abbiamo da subito aderito. L’abuso di farmaci in carcere è una realtà diffusa e molto pesante e speriamo che questo episodio non segni passi indietro nella cura dei tossicodipendenti in carcere e nelle timide pratiche di riduzione del danno che con grande fatica si sono portate dentro alle mura di quell’istituzione totale. Questa vicenda deve essere occasione per ripensare la funzione della pena e riformare il sistema, partendo proprio dal garantire il diritto alla salute alle persone detenute perché la dignità di quelle vite riguarda tutte e tutti noi. Il sovraffollamento è il risultato scontato di una legge criminogena che rinchiude piccoli spacciatori e consumatori di droghe. Poche settimane fa il Ministro dell’Interno aveva addirittura proposto di inasprire il sistema e di aumentare la stretta penale. Ci auguriamo che passata la crisi, si ritorni tutti attorno ad un tavolo per riformare la legge 309 e depenalizzare al detenzione di sostanze stupefacenti. A poco servono indulto e grazia, provvedimenti che auspichiamo con forza, senza una riforma del sistema penale che permetta di tenere fuori dalle carceri chi usa droghe.

Le persone senza dimora, la cui invisibilità viene meno solo quando si ritrovano al centro di provvedimenti repressivi col pretesto della lotta al degrado urbano e della sicurezza dei centri cittadini, sono tra i più colpiti. Da un lato per rispettare le ordinanze delle regioni e i decreti del governo e per mancanza di risorse e di strumenti molti Servizi hanno chiuso, non garantendo alcun supporto, né un posto dove dormire in sicurezza o la possibilità di avere la temperatura controllata; dall’altro chi vive in strada è stato raggiunto da provvedimenti penali per non poter osservare per condizioni oggettive le ordinanze.

Molte cose dopo questa crisi saranno diverse. Noi saremo persone diverse. Ci troveremo a ragionare di quello che è successo? Perché, così come tutto il sistema dovrà fare i conti con le contraddizioni e i limiti che questa crisi ha messo in luce, anche il sistema di welfare che si occupa dei gruppi che stanno ai margini dovrà essere adeguato: il nostro impegno per la riforma della legge 309 e la depenalizzazione dell’uso di sostanze, per aumentare l’offerta e abbassare la soglia del sistema dei servizi, per LEA della riduzione del danno in ogni regione e per la tutela dei diritti delle operatrici e degli operatori e delle persone che usano sostanze, sarà ancora più determinata.

ITARDD

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    Aggiunto in data: 29 Marzo 2020 15:42 Dimensione del file: 64 KB Download: 174