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Il Congresso degli Stati Uniti ha dato finalmente il via all’iter per riforma per la depenalizzazione della cannabis a livello nazionale. Un passo importante e più che dovuto, visto che oggi sono 33 gli Stati che prevedono norme per la marijuana terapeutica e circa un terzo di questi la prevede anche in ambito ricreativo per i residenti maggiorenni. Nonostante questi sviluppi e pur se due terzi degli americani ne auspica qualche tipo di regolamentazione, la cannabis resta nella classificazione più restrittiva, e quindi fuorilegge a tutti gli effetti. Situazione anacronistica che si prevede di superare e uniformare quanto prima, grazie al disegno di legge introdotto lo scorso luglio dai democratici Jerry Nadler e Kamala Harris, noto come MORE (Marijuana Opportunity, Reinvestment and Expungement) Act. La proposta ha appena ottenuto il primo semaforo verde nella commissione giustizia della Camera, con un voto favorevole di 24 a 10. Tre i punti qualificanti: eliminare la cannabis dall’elenco proibizionista del Controlled Substances Act del 1971; annullare o rivedere le precedenti condanne per reati non violenti per possesso personale; imporre la tassa federale del 5% sulla vendita di prodotti legati alla cannabis per risarcire comunità e individui maggiormente colpiti dalla War on Drugs e per incentivare la nuova imprenditoria legale. Elementi fondamentali questi per il successo della riforma, che in pratica vuole confermare l’indipendenza legislativa dei singoli Stati garantendo al contempo alle casse federali una minima fetta delle entrate locali. Prossimo passo è la discussione generale e il voto finale alla Camera, dove i 50 co-sponsor della normativa raggiunti nel frattempo fanno ben sperare. Diversamente da quanto invece si prevede al Senato dove vige la maggioranza repubblicana, che si presume finirà per rispecchiare i dati degli ultimi sondaggi: soltanto il 51% dei votanti repubblicani si dice favorevole alla regolamentazione, contro il 76% degli elettori democratici e il 68% degli indipendenti. Altro intoppo potrebbe essere determinato sui tempi del dibattito nei due rami parlamentari, con l’arrivo della pausa per le festività di fine anno e soprattutto della ripresa dell’impeachment contro Trump, le cui complesse procedure stanno letteralmente logorando i parlamentari (e ancor più l’opinione pubblica). Ma forse il punto più controverso della proposta sta proprio nella sovrattassa federale del 5%. Come hanno subito rimarcato attivisti e organizzazioni da tempo impegnati per la regolamentazione, il maggior nemico di quest’ultima rimane pur sempre il mercato nero. I produttori illegali non devono certo chiedere o aspettare permessi di coltivazione, distribuzione e vendita, né pagare i dazi dei vari passaggi burocratici. Per esempio, la California, maggior mercato mondiale per la cannabis legale, impone già le comuni tasse locali (intorno al 7,5%), la cosiddetta excise tax (15%) e un’ulteriore imposta per la vendita all’ingrosso di foglie o fiori essiccati. Non a caso le entrate al dettaglio del primo anno di legalità ricreativa hanno raggiunto appena 2,5 miliardi dollari, inclusive anche del settore medico. Un calo di circa 500 milioni rispetto all’anno precedente, quando ne era legale soltanto l’uso terapeutico. E secondo le prime stime, il balzello federale porterebbe a un totale pari al 50-80% di imposte aggiuntive per l’acquirente californiano. Non è difficile capire che così sarebbe virtualmente impossibile per i produttori legali competere con un mercato nero oramai di livello professionale. La speranza è che l’attuale testo federale venga modificato cammin facendo, o che si trovino soluzioni generali più consone. Occorre evitare che lo storico percorso di riforma avviato con il MORE Act finisca per creare un inatteso e tragico effetto boomerang.