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Solo una decina d’anni fa nessuno si sarebbe mai aspettato che dagli Stati Uniti sarebbe partito un movimento mondiale per il recupero della ragione sulle piante e sostanze proibite dalle convenzioni Onu in materia di stupefacenti. Certo nessuno si sarebbe aspettato scene da Animal House a Capitol Hill ma questa è un’altra storia.

L’insistenza nell’organizzare referendum, a partire da quello che 25 anni fa legalizzò la cannabis terapeutica in California, ha creato le condizioni per cui sulla pianta proibita siano stati fatti enormi passi avanti. Tra le ultime sorprese la grazia concessa da Trump a Weldon Angelos detenuto per marijuana.

Il passo politicamente più rilevante è stato il voto della Camera dei rappresentanti sul disegno di legge per depenalizzare la marijuana a livello federale. La Legislatura appena iniziata vede i Democratici in maggioranza in entrambe le Camere, se il Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement (MORE) Act dovesse esser votato nuovamente si eliminerebbero le condanne per fatti di “lieve entità”, rimuoverebbe l’erba dal Controlled Substances Act consentendone la tassazione e indirizzando parte delle entrate ad aiutare chi per anni ha subito le “influenze negative” delle leggi razziste sulle droghe (ne avevamo scritto su queste colonne con Leonardo Fiorentini il 6 dicembre).

L’importanza del MORE Act risiede nei motivi per cui era stato presentato mesi fa: annullare il “retaggio delle ingiustizie razziali ed etniche frutto di 80 anni di proibizione della cannabis”. L’ufficio del bilancio del Congresso ha stimato che, tenendo conto dei detenuti federali presenti e futuri per motivi di marijuana “dal 2021 al 2030 quella legge avrebbe ridotto il tempo scontato in carcere di 73.000 anni-persona”.

Il proibizionismo è un’ideologia trans-nazionale che non prevede sfumature; i contrari al MORE Act lo hanno criticato usando gli stessi argomenti che da sempre caratterizzano i reazionari di casa nostra: “la Camera perde tempo su questioni urgenti come la marijuana […] norme serie e importanti che si addicono alla crisi nazionale”.

Questi paladini dell’interesse nazionale restano indifferenti alle sorti di centinaia di migliaia di detenuti per reati legati alla coltivazione, consumo e commercio di una pianta. Secondo il Last Prisoner Project, che ha preso in considerazione solo la presenza dei detenuti per cannabis negli Usa, nell’ultimo decennio, attesta che ben16,7 milioni di persone siano stati fermate per marijuana. Un loro studio afferma inoltre che la guerra alla droga costa annualmente 47 miliardi di dollari mentre il giro d’affari legale attorno alla pianta vale 10,4 miliardi.

Le elezioni del novembre scorso hanno portato a 15 gli Stati, più tre territori, che hanno regolamentato legalmente la marijuana; sono invece 36 quelli che prevedono programmi di cannabis terapeutica.

Le politiche proibizioniste degli Usa sono da sempre le più violente, la Drug Policy Alliance stima che ogni anno gli arresti per detenzione, spaccio e consumo di cannabis raggiungano il mezzo milione – principalmente persone di colore – mentre la ACLU denuncia che in molti stati una condanna penale cancella il diritto a partecipare alla vita politica, ottenere un alloggio, ricevere un’istruzione superiore o trovare un lavoro. Divieti che calati nell’emergenza sanitaria acuiscono situazioni socio-economiche di per sé già gravi.

Nel motivare la grazia ad Angelos la Casa Bianca ha scritto che si tratta di “un attivo sostenitore della riforma della giustizia penale” e che “la sua sentenza è stata il prodotto di una condanna minima obbligatoria eccessiva”. E se ci arriva Trump…

I rapporti di Last Prisoner Project e ACLU su www.fuoriluogo.it