Tempo di lettura: 9 minuti

PADOVA – Via Monte Santo, Padova. "Il muro" dovrebbe essere in fondo alla strada, laggiù, al 24. Lo hanno tirato su nei giorni della Pasqua di Resurrezione, a separare la scuola elementare "Diego Valeri" dal "Centro Territoriale Permanente" dove uomini e donne di una ventina di nazionalità (dalla Moldova alla Thailandia, dall’Ucraina alla Nigeria), di età tra i 15 e i 50 anni – si chiamano Grace, Sasiporn, Zachi, Mustapha, Jean-Fourrier – imparano l’italiano, la nostra Costituzione, ambiscono a un diploma per diventare infermiere, cuoco, elettricista, piastrellista. Il "muro" ora dovrebbe dividere quel che è stato unito, senza complicazioni, per quattordici anni. In via Monte Santo, una strada cieca, il "muro" non si vede e non si può vedere perché non c’è mai stato. In realtà, è soltanto una recinzione a maglie larghe, alta più o meno due metri, lunga una decina, incerta e ballerina (scuotendola, crollerebbe). Da mercoledì scorso, i bambini delle elementari "Valeri" entrano dal cancello principale alle 8,30. Mezz’ora dopo, gli adulti del Ctp si avviano verso le aule qualche metro più in là. Possono sorridersi, rassicurarsi e si sorridono e si rassicurano bambini appaiono sereni. C’è una sola classe che fa ricreazione all’aperto ora (il cielo è coperto, fa un po’ freddo) e si rincorrono con la solita allegria (il freddo non sembra disturbarli, non si sono gettati addosso nemmeno una giacca). La paura – la più temibile delle paure, quella "libera e indistinta" – c’è soltanto nei grandi, a quanto pare. Qualche giorno fa con un telefonino un giovane del Bangladesh ha voluto fotografare un bambino – dicono – per poter mostrare alla famiglia lontana dov’era, con chi era, dove studiava nel Paese che lo ha accolto. Anche se "un’inaccettabile violazione della privacy" (come molti ammettono), quella mossa, ingenua ma non maligna, è apparsa un atto molesto a un genitore, e forse lo era; un atto di un potenziale pedofilo, e non lo era. Ne è nato un "caso" pubblico. Denuncia alla polizia. Proteste. Intervento degli agenti con cani antidroga. Per qualche giorno sono andati a ramengo buon senso e ragione. Un uomo che, fuori della scuola, distribuisce gadget pubblicitari di giochi per bambini è stato sospettato di essere uno spacciatore di "bustine" misteriose.


Due cronisti, fermi dinanzi alla scuola per vedere come si mettevano le cose, sono apparsi così minacciosi da richiedere l’intervento dei carabinieri che li hanno "identificati". E’ stato disposto che gli insegnanti del Ctp accompagnino gli allievi adulti nelle aule, come per un servizio di "scorta" o di controllo. Quest’angoscia cieca, senza direzione e senza causa, appesantita da una spensieratezza mediatica, ha convinto a montare quella recinzione quasi per necessità terapeutica. Quella rete, a vederla, a toccarla, è del tutto inservibile a "separare" (si potrebbe ancora oggi fotografare) e meno ancora a proteggere (un malintenzionato se ne farebbe beffe). Rasserena soltanto le sensibilità inquiete. Ha il valore di un farmaco inerte, non è un "muro". Ma la storia, "etnicizzando" le ansie di un genitore e di una famiglia,
ha rinnovato una convenzione molto diffusa che racconta una Padova segregazionista, tentata dall’apartheid, intollerante, razzista, xenofoba.

* * *

"Padova dei muri" ha oramai una sua contabilità ragionieristica. Il "muro" di via Anelli è il primo e celeberrimo. Per un anno buono (2006/2007) è stato commemorato più della Basilica del Santo, della Cappella dell’Arena, dell’Orologio di Piazza dei Signori. "Primo attore" di quattro documentari in Italia, degli speciali di Tv tedesche e croate, di reportage de le Figaro e dell’International Herald Tribune, il "muro" tra via Anelli e via De Besi – in realtà, una scura barriera di ferro rugginoso – è lungo 96 metri e alto tre. Costato 230 mila euro, è a ridosso di quel che era un ghetto di 300 alloggi dove si stringevano anche dieci persone in miniappartamenti di 28 metri quadrati. Immigrati che affittavano anche soltanto un letto singolo, la doccia, l’uso della cucina. Centinaia di persone, che giorno e notte – per la disperazione del quartiere e dei suoi abitanti – ne affollavano i cortili tra musica, birra, risse, immondizia, spaccio di droga. Il "muro" nasce per questo, raccontano, per impedire che gli spacciatori se la svignassero all’arrivo della polizia. Ora è un terrain vague. Gli stabili sono stati evacuati. 260 famiglie di immigrati regolari sono state "ricollocate" con l’intermediazione dell’amministrazione. 160 hanno fatto da sole e, in un futuro prossimo, se le promesse saranno mantenute, l’area (12mila metri quadrati) sarà riqualificata destinando il 51 per cento all’edilizia residenziale, il 49 per cento ad uffici. Insomma, un buon affare per tutti.
Per gli abitanti del quartiere che, dopo anni, hanno ritrovato la loro tranquillità e con la riqualificazione urbanistica vedranno apprezzare il loro bene. Per gli immigrati che vivono in luoghi più decorosi e lontano dalla coabitazione con i criminali. È contento anche
Paolo Manfrin, l’attivissimo presidente del comitato Stanga. Dice che "le cose vanno meglio, molto meglio" e, nel dirlo, si bacia e si ribacia la punta delle dita come per ringraziare la fortuna. Dopo tanto penare, è
tornata a guardare dalla sua parte e dalla parte di chi abita nel quartiere.

Dopo via Anelli, sono stati tirati su altri due "muri" (espulsi da via Anelli, i pusher si sono spostati di un centinaio di metri nel parcheggio del centro commerciale Giotto). "Muri" per un convenzionale modo di dire. Sono cancelli in pannelli di grigliato elettrofuso "antiscavalco" che chiamano Orsogrill. Uno, lungo 7 metri e alto 2 metri e mezzo, è stato montato in via Galliano, a lato del civico 14. L’altro, per 6 metri e mezzo, protegge l’accesso, in via Venezia, a una tv privata. Acquisto e montaggio, 20 mila euro.

Quel che sorprende è l’assoluta inutilità di quelle barriere. In via Galliano, ai lati del cancello, c’è un muretto alto meno di un metro. Ci si salta su agevolmente. Una volta sul muretto, è fatta. Ci si cala nel parcheggio. E così devono fare i pusher (maghrebini) che oziano in una lama di sole (sono un paio, c’è uno grosso, il capo, lo chiamano "Ciccio"). Più complicato dovrebbe essere per i loro clienti che arrivano nel parcheggio con l’auto e concludono l’acquisto. Sarebbe più complicato, se il cancello funzionasse ma oggi l’Orsogrill è bloccato, in attesa di manutenzione. Il quarto "muro" dovrebbe essere in via Cairoli. È una viuzza a ridosso della piazza della Stazione, lungo Corso del Popolo. Il "muro" è una sbarra, una semplice sbarra da garage che rende pedonale la via per impedire, come in via Galliano, che i clienti (italiani) dei pusher (marocchini e nigeriani) se la sbrighino troppo comodamente. Il quinto "muro" dovrebbe essere in costruzione in via Manara. Alto 2 metri e mezzo e lungo 5, dovrebbe isolare due civici, il 37 e il 39, abitati da prostitute. Le donne si mostrano lungo via Manara e accolgono i clienti in casa. Ne nasce un via vai che appesta le notti degli abitanti di via Grassi e, tra gli altri, il riposo di Gisella Scanferla, la Gisa, una donna energica ormai popolare in città (una notte di gennaio, esasperata, disperse le donne bersagliandole con un lancio di arance). In via Manara non c’è alcun "muro" in costruzione o cancello in montaggio. Di nuovo, c’è un’aiuola – ancora senza siepi e fiori. Impedisce l’accesso in auto ai civici 37 e 39 di via Manara. Via Grassi ha ritrovato la sua serenità e la Gisa pare felice. "Finalmente da qualche giorno sono ritornata a dormire in pace", dice e ride e si stropiccia le mani, soddisfatta. I "muri" dislocati nelle strade di Padova dovrebbero allungarsi, secondo questa contabilità, per 130,5 metri, ma se si depennano dal calcolo i 5 di via Manara (che non ci sono), i 10 della "Diego Valeri" (terapeutici), i 13,5 di via Galliano, via Venezia (più o meno porta di una garage, per di più in panne), si ritorna ai cupi 96 metri di ferro di via Anelli. Che ora presidiano un vuoto, presto abitato soltanto da chi potrà permetterselo a caro prezzo. "Padova dei muri"?

Lo stereotipo sembra declinare insieme la politica della paura con "la politica della immaginazione falsa", per usare una formula di Barbara Spinelli. La paura invoca sempre risposte semplici e perentorie. Soprattutto quella paura "fluttuante" che combina incertezza sociale a degrado urbano, inciviltà a criminalità di trada; che trasforma la realtà delle minacce all’incolumità personale in percezione di insicurezza. Non c’è nulla di più definitivo di una barriera protettiva per separarsi dai problemi, quali che siano. Un "muro" offre la possibilità di sentirsi al sicuro, di immaginarlo almeno. Tutto sommato, di autoingannarsi. Per qualche tempo, consente di non guardare alla realtà. Se ne costruiscono allora, a Padova, di "muri". Dove servono, quando servono. Se sono in grado di esorcizzare una sindrome psichica collettiva, sedare un’onda emotiva, importa poco che siano "simbolici " o fasulli.

* * *

Il sindaco della città, Flavio Zanonato (Ulivo), mostra il mite buon senso dell’uomo comune. È della schiera degli honnetes hommes. Un’amabile stile conversante non rinuncia a una brusca franchezza che va al sodo delle questioni. Quella rete alla elementare "Diego Valeri" – chiede – può davvero apparire a qualcuno che sia in buona fede un "muro"? E un’aiuola lo è? E la porta di un garage può esserlo? Irrita, Zanonato, vedersi accostato ai sindaci che – alle inquietudini dei veneti, prigionieri della nevrosi di chi è costretto a difendere un benessere conquistato con tanto sudore, alla fine di una storia di povertà assoluta – offrono la ricetta elementare e rassicurante di "ordine e pulizia" in un canone amministrativo più sensibile – direbbe Ilvo Diamanti – "all’estetica che all’etica urbana". "Senta – dice Zanonato – si può anche pensare che la rete della "Valeri" sia un placebo. Forse lo è. Anzi lo è, ma non è questo l’essenziale per me. Se le famiglie dei bambini ne sentivano la necessità, io gliela do perché il mio obiettivo è che le scuole continuino ad essere frequentate insieme da noi e da loro. Non voglio che esista il noi e il loro. Che si creino le scuole dei bianchi e le scuole dei neri. Il 10 per cento della popolazione di Padova è immigrato, extracomunitario e comunitario. I loro figli sono il 14 per cento della popolazione scolastica. È una percentuale che io voglio aumentare, non diminuire. E, se non avessi tirato su quella ridicola rete, l’anno prossimo molte di quelle famiglie non avrebbero iscritto più alla "Valeri" i bambini. Questa sarebbe stata una sconfitta che mi sarei rimproverato. Non mi rimprovero quella rete".

Padova come molte città del Veneto – al di là di quello che colpevolmente si crede – ha un alto grado di integrazione degli immigrati, dice Zanonato. "Per la vitalità delle nostre imprese, che danno loro lavoro e ne beneficiano; del network di solidarietà delle oltre trecento associazioni cattoliche; della politica di un’amministrazione che senza ideologismi si sforza di affrontare le criticità sociali dove nascono, quando nascono. Nella convinzione che usare il facile spettro dell’immigrazione o della criminalità comune per placare le nostre inquietudini è più che un errore, è una stupidata che in futuro si può pagare salato".

* * *

Se si vede la soddisfazione di Paolo Manfrin e della Gisa o come abbracciano Flavio Zanonato, quando lo incontrano, si può comprendere meglio come – al di là della rappresentazione che ne dà un circuito politico-mediatico a caccia di comoda audience – nessuno davvero creda che i problemi di oggi e di domani si chiudano nella semplificazione immigrazione/criminalità/insicurezza. Nessuno davvero si illuda che etnicizzando la crisi sociale, la si risolva. Una convinzione non soltanto padovana o veneta, se è vero che in questo scorcio di campagna elettorale la "sicurezza" – come esclusivo messaggio sicuritario, più polizia, più punizione, più espulsioni – ha perso la sua straordinaria e vincente visibilità nell’offerta politica (Berlusconi si dice addirittura non ostile a far votare gli immigrati). La "sicurezza" è ormai una questione omnibus. Non divide. Crea consenso generalizzato. Interessa tutti, ma è troppo e sempre vera per spiegare davvero qualcosa. È un esito ormai accertato, per gli analisti sociali. Una ricerca Demos (dicembre 2007) dà conto di come la domanda di sicurezza rifletta anche altre e diverse preoccupazioni: l’angoscia per il degrado del territorio, del cibo, dell’aria, del clima (tra il 40 e il 60 per cento); i timori di tipo economico (uno su tre ha paura di perdere i risparmi; 4 su 10 di diventare povero); la paura per il futuro dei figli (il 64 per cento sa che "la condizione economica e sociale sarà peggiore"). "La criminalità, le minacce all’incolumità personale, familiare, domestica – conclude lo studio – rappresentano solo una e non la più drammatica faccia della sicurezza. Altre paure incombono e richiamano la tradizionale domanda di "prevenzione", di "assistenza", di "futuro"".

* * *

Carlo Mazzacurati, con i suoi film (Notte italiana, Un’altra vita, Vesna va veloce, Il prete bello, il Toro), si è conquistato un posto tra le storie illustri di "Padua felix". Ha scelto di ritornare a vivere nella sua città dopo due decenni di assenza e può guardare ora Padova dalla "giusta distanza" né con le nostalgie retoriche da "ragazzo della via Gluck" né con i pregiudizi nazionali per il Veneto e i veneti. Dei "muri di Padova" ride, di cuore e con amarezza. Gli sembra che quei muri fasulli non possano aggiungere nulla di più allo sbrego che ha irrimediabilmente scucito la città dal suo paesaggio e i suoi abitanti dalla loro antropologia. "Oggi – dice – è come se fossimo prigionieri di un inflessibile meccanismo di infelicità, a cui ci siamo arresi. Un benessere privo di nutrimento culturale ci ha precipitato in uno stato perenne di aggressività. Là dove c’era gentilezza – anche, se si vuole, una raffinata ipocrisia – c’è rancore. Dove c’era semplicità e dolcezza di carattere c’è solitudine, noncuranza per gli altri, ma anche per se stessi, per l’amore di sé". I nuovi luoghi di aggregazione, i percorsi, le abitudini personali e i riti collettivi di Padova appaiono a Mazzacurati il segno concreto di un’impotenza a rinnovare valori e legami sociali indeboliti, e non rafforzati, dal successo economico. Più che i "muri", sono le sbronze fino allo sfinimento dei minorenni nei "mercoledì dello spritz" a impressionarlo; le stragi dei giovanissimi lungo le strade; "le famiglie dal nonno al nipote che festeggiano al McDonald" lungo quei territori che sono oggi la scena della nostra esistenza, gli ipermercati, i parchi-gioco, le discoteche. "Non è il muro che mi spaventa. È questa apparentemente quieta accettazione dell’infelicità. Temo che, per le ragioni più inaspettate, possa infocarsi, esplodere, mutare
pericolosamente, imprevedibilmente". La natura quasi
ipnotica di un "muro", anche se fasullo, può essere il segnale di quel pericolo.