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di ADRIANO SOFRI

Su poche questioni bisognerebbe ragionare senza pregiudizi come sulla droga. Cioè, non sulla droga, ma sui «drogati». Persone, non «la questione». Sento proclamare la guerra alla droga e mi figuro guerra, rifiuto, carcere ai «drogati». Ho scritto qualche pagina di premessa a un libro di Grazia Zuffa, appena uscito (I drogati e gli altri. Le politiche di riduzione del danno, Sellerio). Le ho scritte da incompetente della «questione», e conoscitore forzato di persone tormentate, miei vicini, miei prossimi nel fondo in cui mi trovo. L’espressione «riduzione del danno» non era di quelle fatte per piacermi: così prosaica, così rassegnata. Alla gente piacciono le frasi finali, ultimative. Guerra alla droga, appunto. Ho ripensato alla mia stessa esperienza di persona sempre estranea e distante dal «problema», e dunque incline a simpatizzare per gli slogan assoluti. Ora mi pare che questi ultimi siano a volte un modo per non occuparsi di droga e drogati. Sbaglio? Per non occuparsi della droga, bisogna avversarla senza riserve, anzi esecrarla, anzi volerla abolita, estirpata, cancellata. Bisogna volere un mondo senza droga. Qualcun altro poi se ne occuperà.

Non vale solo per la droga. Si può volere tutto un mondo senza. Senza povertà, senza fame, senza guerre. Senza prostituzione obbligata, senza la paura fatta ai bambini, senza schiavitù. Senza sfruttamento, senza razzismo, senza violenza. Senza. È giusto e bello pensare a un altro mondo, in cui qualcosa sia sradicata e abolita, e qualche altra cosa sia adempiuta. In questo desiderio – abolire il male, realizzare il bene – rivoluzionari e poliziotti rischiano di concordare.

Quando ci si disinganna sulla possibilità di togliere i peccati dal mondo, si può reagire variamente. Capita di accettare il mondo così com’è, per rassegnazione o, peggio, di trovarlo magnifico, e di provare impazienza per chi si adopera a rattopparlo qua e là. Oppure di conservare una memoria indulgente, anche un affetto, per la propria passata generosità, oltre che una cautela nuova – convalescente, postchirurgica, diremo – per gli effetti collaterali, i danni appunto, delle manomissioni a fin di bene. Questo libro parla della «riduzione del danno», che è un po’ una filosofia e un po’ un insieme di pratiche. A chi voglia rifare il mondo da capo a fondo la filosofia suona demoralizzante, perfino nella sua insegna: riduzione del danno non è un titolo da entusiasti. Volete mettere con «un mondo senza», o con «tolleranza zero», e altre promesse di tutto o niente? Un realismo (dunque un pessimismo) ispira la formula prosaica, però è un pessimismo fattivo. Nobile è il fervore che fa dire: «Mai più guerre». Più oscuro, e pacato, è il viavai di chi prova a mettere in salvo un gruppetto di bombardati, di chi si adopera a tamponare le ferite o a portare il soccorso di un pane e di una parola detta o ascoltata. Di fronte alla squillante proclamazione della «guerra alla droga!», la riduzione del danno è una formula quasi impiegatizia. Vedete bene che non si può metterle un punto esclamativo in coda. La «guerra alla droga» vuole risolvere il problema e salvare tutti: temo che non ne salvi uno. La riduzione del danno ne salva alcuni, un po’. La filosofia della «soluzione dei problemi» storce invariabilmente la bocca di fronte alle mezze misure, ai pronti interventi e alle riparazioni. «Non risolve il problema»: infatti. Intanto, né siringhe pulite, né controlli dei tagli avvelenati, né somministrazione controllata al manipolo di eroinomani senza scampo, sopravvissuti solo per esser dannati alla galera e allo sfruttamento.

L’esempio più chiaro di questa filosofia che mette via, più o meno provvisoriamente, le parole grosse e ultime, e ripiega su quelle dell’indugio e della dilazione, riguarda la pena di morte. Eppure, quale impegno più chiaro e netto di quello: abolizione della pena di morte? Tuttavia, si è dovuta prendere l’altra strada e chiedere intanto: che intanto si sospendessero le esecuzioni, fino al 2000, fino al 2005… Moratoria. In quel caso è più evidente lo scenario. C’è un uomo nella cella d’attesa, se ne auspica con tutto il cuore la salvezza, ma intanto si chiede un rinvio dell’esecuzione: la vita per lui è una vita rinviata, una morte certa ma a data da destinarsi. (Il gergo penitenziario conosce la formula: differimento pena). È angoscioso, ma è anche un buono spunto alla comprensione di sé e alla simpatia con l’altro: perché la vita di tutti è al fondo un intervallo, una dilazione. Benché la faustiana scienza contemporanea miri all’immortalità, è un po’ di longevità in più il suo esito, intanto.

La riduzione del danno esprime in modo ancora più modesto e quasi intimidito questa realistica e fattiva misura. Eppure, fa scandalo: si vuole «ridurre» il male, invece che abolirlo? Mah. Pensare, piuttosto che «al problema», alle persone significa anche riconoscere che esistono altrettanti problemi quante sono le persone, e altrettanti modi di affrontarli quanti ne richiedono e ne autorizzano le persone. Oltretutto, ricordando che i metodi e le idee non sono buoni, o migliori, di per sé, ma grazie alle persone che li fanno vivere, e viceversa. Questo dovrebbe rendere più prudenti nell’investire sulle idee e sulla loro sistemazione scolastica e supposta imitabile; e, altrettanto, nell’affidamento autoritario ai guru. Informazione, discussione, sperimentazione, controllo dei risultati, correzione e ricominciamento, rimessa alla prova: di questo lavoro senza tante maiuscole ci sarebbe bisogno. E meno prediche: compresa la mia.