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Stefano Cucchi aveva 31 anni. Federico Aldrovandi 18. Il pri­mo è morto a Roma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. Il secondo a Ferrara, il 25 settembre 2005. Forse sono solo due personaggi di storie lontane. Ma per ora le loro vicende sembrano avere più di un punto in comune. Le due famiglie, in­nanzitutto. Gli Aldrovandi si sono battu­ti a lungo per scoprire il motivo della morte del figlio: Federico non sopravvis­se ad un controllo di polizia. Ora i Cuc­chi ripercorrono la stessa strada, fatta di proteste, contatti con i politici che si oc­cupano di detenuti, interviste televisive. Anche Stefano, come Federico, era af­fidato, come insiste a dire la famiglia, «allo Stato». Era stato arrestato dai cara­binieri per spaccio di droga. Aveva pas­sato la notte in caserma. Qualcosa è ac­caduto quella notte. I carabinieri sosten­gono che hanno udito il detenuto la­mentarsi. E per questo hanno chiamato un’ambulanza. Arrivato il medico, Cuc­chi ha rifiutato le cure, preferendo la cel­la all’ospedale. Il giorno dopo è stato portato dal giudice. Poi in carcere. E da lì al pronto soccorso dell’ospedale Perti­ni per un mal di schiena. È morto giove­dì scorso nel reparto dei detenuti.

La famiglia, che non ha avuto il per­messo di visitarlo durante la convale­scenza, prima ha descritto i segni di un pestaggio sul corpo di Stefano. E poi, proprio come era stato fatto nel caso de­gli Aldrovandi, ha diffuso le foto del ca­davere dopo l’autopsia. Una decisione presa con l’avvocato Fabio Anselmo. Lo stesso del processo di Ferrara.

Per scoprire la verità su Aldrovrandi ci sono voluti 4 anni e 32 udienze. Fino alla condanna di quattro poliziotti per omicidio colposo: l’avevano percosso e gli avevano tolto il respiro, ammanettan­dolo a pancia in giù. Tempi così lunghi hanno fatto male a tutti, alla famiglia e alla polizia. Ora, per spazzar via ogni dubbio, è necessario fare subito chiarez­za sulla morte di Cucchi. Ha fatto bene il ministro della Giustizia Alfano, a chiede­re «un approfondimento immediato». Ora deve ottenerlo.