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Morti nelle carceri. Un Comitato per la verità, la trasparenza e la giustizia

Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà.

Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti.

Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che «le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini», senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte.

Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo – o smentendo – quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine.

Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni.

A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti.

Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra.

In questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto.

Primi firmatari:

*** Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa

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