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marco-perducaIl 10 ottobre scorso si è celebrata in tutto il mondo la giornata mondiale contro le esecuzioni capitali, quest’anno la Coalizione mondiale contro la pena di morte l’aveva dedicata alla denuncia dell’uso che se ne fa nelle politiche di “controllo degli stupefacenti”. In aggiunta alle sistematiche violazioni dei diritti umani causate dalla “guerra alla droga”, ufficialmente denunciate dall’Alto Commissario ONU per i diritti umani (vedi questa rubrica del 15/9), il proibizionismo è anche complice dell’uso della pena di morte nel mondo.

Secondo il rapporto sulle esecuzioni nel mondo preparato annualmente dall’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, nel 2014 ben 414 esecuzioni in 4 Paesi sarebbero da ricondurre a reati di droga; di queste almeno 41 in Arabia Saudita, un numero sconosciuto in Cina, 371 in Iran e due a Singapore. Al 30 settembre del 2015, sempre secondo i Radicali, almeno 615 persone sono state giustiziate per reati connessi al narcotraffico in quattro Paesi: 55 in Arabia Saudita, un numero imprecisato in Cina, 14 in Indonesia e almeno 546 in Iran. Nel 2014, e nei primi sei mesi del 2015, condanne a morte per droga sono state pronunciate, ma non eseguite, in altri nove Stati: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Malesia, Pakistan, Qatar, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam.

Per l’Ong Harm Reduction International, i Paesi che mantengono la pena di morte per reati legati agli stupefacenti proibiti sono 33, tra questi 12 la prevedono obbligatoriamente in casi specifici e sono Brunei Darussalam, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Siria, Sudan, Sudan del Sud e Yemen. In altri 14, tra cui USA e Cuba, la pena di morte è prevista per i trafficanti internazionali ma non viene mai applicata. I dati relativi a Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan, Sudan del Sud e Siria non sono attendibili, ma è ragionevole ipotizzare che la situazione in quei Paesi possa essere gravissima.

Oltre a quella contro la pena di morte, esiste anche la giornata mondiale contro il narcotraffico. Negli anni scorsi, grazie anche alla “visione strategica” di Pino Arlacchi direttore dell’Ufficio dell’ONU sulle droghe e il crimine di Vienna, UNODC, per cinque anni fino al 2002, il 26 giugno veniva celebrato con la distruzione pubblica di tonnellate di droghe confiscate e con l’uccisione in piazza dei narcotrafficanti. Oggi, dopo anni di conclamati fallimenti del proibizionismo e il progressivo abbandono della pena capitale in decine di paesi, le Nazioni Unite di Vienna hanno sostanzialmente modificato il loro approccio alla iper-penalizzazione dell’uso e del possesso delle sostanze proibite.

Malgrado l’opposizione dell’UNODC alla pena di morte, l’agenzia che oggi è guidata dal russo Yuri Fedotov, insiste col sostegno ad alcuni programmi di “assistenza tecnica” in paesi che mantengono la pena di morte per il narcotraffico. Come denunciato da Iran Human Rights, Teheran rimane il partner privilegiato, in particolare per “contenere” il traffico di oppio dall’Afghanistan all’Europa. L’Iran è, per l’appunto, il paese che sistematicamente applica la pena di morte per reati connessi alla proibizione degli stupefacenti con un accanimento tutto particolare nei confronti delle donne. Finanziamenti minori arrivano anche al Vietnam e al Pakistan, anch’essi con codici penali altrettanto severi. Ogni anno il Rapporto Mondiale sulle Droghe dell’ONU documenta come la produzione, il consumo e il commercio degli stupefacenti proibiti non diminuiscano: un’ulteriore riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che la pena di morte non è un mai stato un deterrente e men che meno può esserlo nella guerra alla droga.