E’ proprio vero che la miglior difesa è l’attacco. In un articolo del Venerdì di Repubblica (D’Aprile, 9 novembre), si fa l’elogio del “sistema di allerta precoce” del Dipartimento Antidroga, per individuare in rete e impedire lo svolgimento dei rave: citando (senza vergogna) l’amara vicenda di Cusago del 27 ottobre scorso, quale perla del sopradetto sistema di prevenzione. Vale la pena di rinfrescare la memoria. A Cusago, in piena notte, la celere irrompe nel luogo dell’evento, blocca le uscite, interrompe la musica e con un “effetto trappola” crea il panico fra i 1500 partecipanti al rave. Invano gli organizzatori cercano una mediazione con le forze dell’ordine, tentando di spiegare che i partecipanti non possono essere fatti defluire nel giro di minuti. Seguono manganellate e violenze. Il bilancio finale sono persone in stato di shock, costrette a fuggire mettendosi alla guida nelle peggiori condizioni psicofisiche possibili. E una ragazza portata in ospedale e in seguito operata e indotta in coma farmacologico: non una “vittima della droga”, ma di un brutale pestaggio in nome della “prevenzione”. Commenta, incurante del grottesco, il capo del Dipartimento, Giovanni Serpelloni: non vogliamo impedire le feste, ma garantire le condizioni di sicurezza (sic!).
Come giustamente ha commentato la rete italiana degli operatori di riduzione del danno (Itardd), il governo sceglie l’approccio repressivo contro le feste non legali invece di preoccuparsi – come dovrebbe- di offrire in quei luoghi – legali o illegali che siano – servizi e interventi di riduzione dei rischi, utili a mettere in sicurezza i contesti e a proteggere i giovani. E taglia i fondi per la salute dei cittadini mentre sperpera denaro in operazioni di polizia dannose e fuori controllo.
Neppure si può condividere la condanna morale dei rave. La scena rave è stata oggetto di molti studi e ricerche nel tentativo di interpretare questo fenomeno apparso sulla scena europea già da decenni. I giovani sono attratti dal desiderio di appartenenza, alla ricerca di rituali collettivi con o senza droghe. Il nostro lavoro di operatori è di combattere il giudizio morale come forma di resistenza alla conoscenza, nel tentativo di ampliare i nostri orizzonti culturali e operativi.
Ciò che più ferisce è il pretesto di un’operazione “in nome della legalità”. Ma non si è trattato di ristabilire l’ordine in un contesto di degenerazione. Si sa che le forme di occupazione degli spazi, che sono la premessa di qualsiasi rave, sono pratiche innocue, di disobbedienza civile a norme non condivise, più che reati contro cose o persone. Sono trasgressioni nella mente di chi le organizza, per restituire vita, calore e colore a luoghi abbandonati. Ciò che è stato bastonato sono stati proprio questi sentimenti vitali: il desiderio di stare tra pari, l’entusiasmo per il lavoro collettivo, la scoperta delle proprie capacità, la voglia di metterle al servizio di altri. Operazioni violente e distruttive come quella di Cusago interrompono qualsiasi tentativo degli operatori di interloquire, valorizzando le spinte vitali presenti e offrendo reti efficaci di protezione a chi rischia di più. Nessuno benedice i rave, ma è anche utile che nessuno li condanni. Violente e inutili crociate “moralizzanti” insegnano solo a diffidare delle istituzioni.