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In un lavoro di molti anni fa, una ricerca sugli impiegati berlinesi, Kracauer ebbe il merito di trasformare un argomento apparentemente secondario e marginale in una delle più lucide ed interessanti analisi della società tedesca degli anni Trenta, descritta nel suo complesso. Come a sottolineare che, talora, soltanto a partire dagli estremi o da ricognizioni liminari si può essere in grado di cogliere lo spirito degli eventi o la centralità di alcuni problemi. È questa riflessione che dovrebbe accompagnarci nel commentare il dibattito inaugurato dalle considerazioni del procuratore generale della Corte di Cassazione Galli Fonseca, circa la sperimentazione controllata, che se non altro hanno avuto il merito di riproporre il tema all’opinione pubblica, e a quanti di noi, tecnici e laici, direttamente si occupano degli interventi sulla questione delle dipendenze, interrogandoci sull’oggetto delle nostre pratiche e sull’adeguatezza dei modelli organizzativi. Anche i confronti sugli strumenti, siano essi i percorsi comunitari o l’utilizzo di supporti farmacologici quali il metadone, difficilmente possono sottrarsi all’esplicitazione degli obiettivi, all’analisi dell’evoluzione del fenomeno, alla ricerca di griglie valutative, alla lettura delle dinamiche contestuali; tutti fattori che le recenti dichiarazioni hanno ricondotto al centro del dibattito. La conferenza nazionale sulle droghe di Napoli, che ha sancito quel principio ispiratore, al contempo etico e operativo, dell’accoglienza di tutti i tossicodipendenti, specialmente i più emarginati, a partire dal riconoscimento della loro dignità di persone, ha inaugurato la condivisione di una cultura che individua la remissione, non più come una pratica preventiva e pregiudiziale di una condotta di aiuto. Si è così sottolineato, rifuggendo da ogni rassicurante soglia di discriminazione degli interventi, che questi si modulano sulla capacità di prendersi cura e che le guarigioni si coniugano con la costruzione di una relazione stabile nel tempo e con la sua leggibilità. Ovvero, la cura come relazione si misura sulle capacità possedute di accedere al simbolico, sulla ricostruzione di confini sfaldati, sulla confidenza emotiva, sulla tollerabilità di altre relazioni e legami, sulla ricomposizione di immagini sociali, sulla salvaguardia di collocazioni produttive e di corrette dinamiche familiari, intese come fattori protettivi contro il riattivarsi del carattere automatico e ripetitivo delle condotte. Una cura intesa come accompagnamento sociale forte, che si modula sulla fase che la persona tossicodipendente attraversa, sulle motivazioni del periodo, sulle risorse disponibili e sulla capacità di utilizzarle. Consapevoli di muoversi all’interno di un orizzonte in cui le scelte, i riti, i modi della cura, le esclusioni, il pregiudizio sociale, lo stesso dettato legislativo, rappresentano fattori in grado di modulare i decorsi e favorire la cronicità delle condotte. È l’emergere di una cultura – che speriamo possa sempre più essere condivisa da operatori – che sottragga alla facile illusione fatta di attese salvifiche, appiattite in una ingenua equazione che identifica cura e guarigione, si riconosca nella tensione verso quest’ultima senza ignorare i necessari obiettivi intermedi, e le loro articolazioni organizzative, finalizzate alla salvaguardia della vita, delle condizioni di salute e dignità, di integrazione sociale e di progressiva assunzione di responsabilità e cura di sé per coloro non ancora in grado di praticare forme protratte di astinenza. Allora, le nostre necessità sono la disponibilità di strumenti capaci di far emergere il sommerso del fenomeno tossicodipendenza e stimolare la ritenzione nei programmi terapeutici per evitare i rischi di abbandono e clandestinità o il mantenimento di pratiche illegali, pericolose per la salvaguardia della stessa vita e pregiudiziali per la fuoriuscita dalle condotte di dipendenza. Disponibilità e strumenti per accogliere e stemperare in un percorso riparativo quegli elementi di ambivalenza distruttiva, di rapidi passaggi all’atto, di vuoto, di umore disforico, di ansia, di scarsa autostima, di pratiche antisociali, di incertezza e dolore che costantemente animano i vissuti della dipendenza e i loro interpreti. In questa ottica, il ricorso a farmaci sostitutivi quali il metadone diventa strumento di terapia, perché avvicina il sommerso ai servizi, facilita la costruzione di un "area" di relazione terapeutica, permette di controllare la tensione e gli impulsi più distruttivi, salvaguarda in buona misura dal richiamo delle sostanze illegali, diminuisce i rischi delle patologie correlate, può favorire il mantenimento di una responsabile integrazione sociale. Il metadone come strumento di cura – a meno che non riteniamo che ognuno di noi sia semplicemente identificabile con la predefinita staticità delle proprie trasmissioni neuronali – vivrà più in generale quell’analogo statuto di ambivalenza rispetto ai sintomi che assume qualunque terapia farmacologica in ambito psicopatologico. Una condizione di ambivalenza che più nessuno, però, si sognerebbe di contestare come cura, con analoga veemenza, in un terreno a noi affine quale la psichiatria. L’uso di farmaci sostitutivi, e del metadone fra questi, in attesa di ulteriori nuove molecole, permette così l’articolazione e la diversificazione degli interventi, amplia il campo delle opportunità, evitando di allestire poche soluzioni che, seppur "rigorose", rischiano di essere efficaci soltanto per una fascia esigua di popolazione. Il farmaco permette inoltre, valorizzando la relazione terapeutica, di modulare quel difficile equilibrio fra control e affect che diviene supporto di un percorso riparativo, nel confronto con le dinamiche del quotidiano, superando i limiti contenuti nella separazione dal territorio e dalle risorse sociali diffuse. In questa ottica, il timore più grosso per la maggioranza di una popolazione dipendente, non è tanto la lungo-assistenza, purtroppo realisticamente inevitabile, quanta, se priva di cura, i rischi di cronicità individuabili in progressive perdite di competenze sociali, affettive, relazionali, lavorative, intese come abilità perdute nel corso delle condotte "di strada" o come mai acquisite nel corso dei propri compiti di sviluppo. In questa ottica si comprende quanto l’accesso e la disponibilità delle cure, la loro articolazione, l’offerta di un sistema dei servizi che preveda integrazioni e continuità fra pubblico e privato-sociale rappresenti una garanzia di salvaguardia dalla cronicità. Per fare questo, non è necessario che i SERT siano aperti sulle 24 ore, per la somministrazione di metadone, in quanto non hanno compiti di pronto soccorso, ma che funzionino i protocolli di intesa con tali presidî, restituendo ai tossicodipendenti quei diritti di cittadinanza e di cure di cui godono tutti coloro che si trovano in condizioni di emergenza. È necessario che il medico di famiglia, sul modello di altre realtà europee, veda il soggetto tossicodipendente come un proprio paziente e sia capace di impostare una prima cura che potrebbe evitare i lunghi tempi di attesa fra l’emergere di una condotta e l’invio al presidio specialistico. È necessario uniformare i trattamenti penitenziari alle pratiche vigenti sul territorio, svincolandoli dai rischi di condizionamenti ambientali, ristabilendo il primato della clinica. È necessario che l’entità e la disponibilità dei farmaci sostitutivi non confligga con le possibilità di articolare una normale vita lavorativa e di relazione. Come si intuisce, sono temi che prima di delegate soluzioni normative e giudiziarie richiedono l’esercizio di una faticosa egemonia scientifica e culturale. E questo è compito di tutti noi.

* Dirigente SERT, ASL Firenze