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La realtà molteplice dei consumi di droghe corre veloce anche nel mondo del lavoro. Non si fa in tempo ad avviare una buona prassi con delegati e sindacalisti per sensibilizzare verso consumo e consumatori e garantire l’applicazione della legge, laddove prevede la tutela del tossicodipendente-tipo (eroinomane che sceglie la cura e l’astinenza), che i consumi schizzano verso altre sostanze, altre modalità d’uso, i lavoratori garantiti dalla legge piano piano diventano la minoranza, e i governi introducono test a go-go. Se incontri un gruppo di delegati, fai una certa fatica a farli scivolar via da quello che hanno conquistato, lo stereotipo “buono” del tossicodipendente come persona in difficoltà cui dare una chance, attorno a cui, superando i pregiudizi, tessere rete solidale in vista di un “recupero” e di una “guarigione”. Insomma, una sorta di approccio vittimologico-terapeutico, dove l’assenza di “colpa” si radica in un malessere subito, in una difficoltà, in una malattia, e la solidarietà a questo esser vittima si àncora, aspettandosi un ritorno alla “normalità”.
Intendiamoci: non che questa cultura della vicinanza solidale e del garantismo non sia importante. Esiste chi sta male e rischia di perdere il lavoro, o viene isolato dai suoi compagni, e questo non dovrebbe accadere. Ma questa ottica si porta dentro e dietro un apparato di sguardi sul fenomeno che, quantomeno, registra oggi la sua parzialità, a cominciare proprio dall’approccio della vittima, della malattia, della guarigione. Ciò che già alcuni di noi, controcorrente, avevano studiato per quanto attiene gli eroinomani – cioè la capacità ad alcune condizioni di tenere in modo soddisfacente le redini dei propri funzionamenti sociali, lavoro incluso – è divenuto fenomeno di massa degli “altri” consumi, correlato al moltiplicarsi di strategie di compatibilità sociale e individuale. I consumatori oggi sempre meno hanno – se mai hanno avuto – carriere che si sviluppano secondo una linea retta, all’ingiù verso l’inferno “cronico” o all’insù verso l’astinenza, ma vivono un andamento oscillante fatto di controllo e perdita del controllo e di nuovo recupero, di crisi e di riassestamento su una medietà di vita attiva nella maggioranza dei casi accettabile. Gli studi sugli stili di consumo – così pochi in Italia ma ricchi in Europa e oltre – su questo ci dicono cose molto chiare e importanti, che sono la base scientifica per dire che è opportuno, utile e possibile concentrare gli sforzi sulla tenuta del controllo e della vita attiva più che solo sulla cessazione del consumo.
I luoghi di lavoro sono pienamente investiti da questo processo, come ogni altro luogo in cui si svolge la vita degli individui. Sono popolati da uomini e donne che assumono sostanze secondo stili diversi, e dunque ragioni e culture diverse. Ragioni complesse. L’intervento con lavoratori, delegati e sindacati va ricalibrato su questa complessità: la solidarietà non scatta attorno alla “vittima”, ma alla persona che ha un suo stile di vita, una consapevolezza e insieme una esposizione al rischio e una fragilità, che può oscillare tra “dentro” e “fuori” l’autocontrollo, e che ha bisogno di valorizzare attorno a sé gli elementi che favoriscono il “dentro” ed evitano il “fuori”. Tra questi fattori ci sono anche il contesto e le relazioni di lavoro, che possono essere produttrici o di minimo o, di contro, di massimo rischio e danno.
Tra le ragioni del consumo c’è anche quella legata alla performance: essere all’altezza dei compiti, non addormentarsi, reggere la fatica, superare la timidezza, guadagnare meglio. Operai edili e agenti immobiliari trovano in alcune sostanze un ausilio per la performance. Le condizioni di lavoro contano e incidono. Tuttavia, la conoscenza degli attuali stili di consumo suggerisce di non reiterare piattamente nei nuovi contesti la vecchia semplificazione “vittimologica” tout court: il lavoro duro, alienante, “cattivo” porta con sé l’uso di sostanze come risposta individuale alla fatica moderna. È anche così, ma non è solo così. Un lavoro “buono” previene l’uso di sostanze? Un capitalismo meno rapace ci porterebbe verso un “mondo senza droghe”? verso una classe di lavoratori astinenti? (“sani”?) La complessa realtà delle culture e delle ragioni per assumere una sostanza suggeriscono che no, non sarebbe così. Per dirla in altro modo: si consuma per lavorare (di più), ma si lavora anche per consumare (per acquistare una sostanza da cui si trae piacere, socialità, autocura, senso, consolazione). Qualcuno dice che una molecola diventa una droga quando passa attraverso un mondo di significati, di senso. È una buona definizione: anche nel mondo del lavoro, per lavorarci, sulle droghe, bisogna andare oltre la semplicità del “causa-effetto”, e scandagliare altri universi.