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La prima inchiesta nazionale sui tassi di vittimizzazione in Italia, a cura dell’ISTAT, è di quest’anno. È invece dagli anni Settanta che ricerche di questo genere vengono svolte negli Stati Uniti e nei Paesi dell’Europa occidentale. C’è uno stretto rapporto tra l’interesse per questo tema e la nuova declinazione che in molti Paesi ha preso la questione dell’ordine pubblico. Problema tradizionalmente di destra, oggetto di campagne di allarme sociale, negli ultimi venti anni, risignificato come “sicurezza dei cittadini”, è diventato campo di interesse e intervento (anche) da parte della sinistra. È precisamente l’enfasi crescente sulle vittime che ha agevolato questa risignificazione: la sicurezza viene ridefinita come diritto dei cittadini. Contemporaneamente, la sua definizione e gestione tende a decentrarsi e a diventare tema di intervento da parte dei poteri locali, ciò che comporta una attenzione prevalente ai problemi della “prevenzione” rispetto a quelli della “repressione”.

Da alcuni anni, lavora su questi temi il progetto “Città sicure” dell’Emilia-Romagna, di cui faccio parte, e a cui si devono molte ricerche, progetti di intervento e interventi in diverse città di quella Regione. Nonostante il mutamento terminologico (da ordine pubblico a sicurezza cittadina), che cosa si debba intendere con sicurezza urbana rimane questione teoricamente e politicamente molto dibattuta: la scelta adottata dal comitato scientifico di “Città sicure” è di intenderla come “bene pubblico”. Non, tuttavia, come il bene del pubblico: questa, che a me sembra viceversa l’accezione prevalente, si presta a funzionare da standard della tenuta morale di una collettività, con i soliti corollari dell’attribuzione di colpa, la ricerca di capri espiatori, i meccanismi dell’esclusione. “Pubblico” è, del resto, termine polisemico, che rimanda sia a responsabilità istituzionali, sia alla messa in opera di virtù civiche, sia alla ricostruzione di legami sociali non privatistici: tenere insieme i diversi significati di pubblico vuole dunque dire anche tenere presente e interrogare le dimensioni poste dal tema della cittadinanza oggi, sia come titolarità ed esercizio dei diritti fondamentali, sia come terreno della ricostruzione di legami di reciprocità improntati alla rivisitazione del tema della responsabilità collettiva.

Ciò che si intende per sicurezza non è, peraltro, risultato di scelte soltanto politiche, bensì culturali in senso più generale, ossia esito di valutazioni implicite nei modelli di rapporto prevalenti in un certo luogo, in una determinata situazione, in un certo tempo: da questo punto di vista, un’ottica di genere ci può insegnare molto sulla dimensione culturale delle scelte in materia di sicurezza, offrendoci materiale comparativo basato sulle differenze su questo punto tra uomini e donne.

Il dibattito, la ricerca e gli interventi sulla sicurezza si appoggiano su due pilastri principali: le inchieste di vittimizzazione, come dicevo, e le indagini sui sentimenti e la percezione di insicurezza (o “paura della criminalità”). C’è molta più riflessione attorno alle seconde che non attorno alle prime, come se la vittimizzazione si riferisse a qualcosa di più oggettivo, meno opinabile, meno influenzato da fattori culturali e politici, che non la paura. E questa idea sembra rafforzata da ciò che tutte le ricerche, in qualsiasi Paese, mostrano: ossia, che i tassi di vittimizzazione non si sovrappongono ai tassi della paura. La non sovrapposizione si rivela particolarmente eclatante per quanto riguarda il genere. Le donne (anche controllando altri fattori, come l’età, l’appartenenza etnica, la condizione sociale, ecc.) sembrano molto più timorose degli uomini, ma meno vittimizzate. Quando tuttavia si assume esplicitamente un’ottica di genere, questo strano paradosso si rivela cruciale per mettere a fuoco ciò che dicevo prima, ossia le dimensioni culturali della sicurezza. Per prima cosa, un’ottica di genere ha permesso di criticare e ampliare i confini della vittimizzazione, allargandola alla violenza familiare, alle molestie sessuali, alle inciviltà, in una parola a tutto ciò di cui sono vittime le donne piuttosto che gli uomini: ciò che implica un modo diverso di intendere la sicurezza cittadina e le politiche che la concernono, introducendo il problema della violenza nel privato e a opera di conosciuti, e soprattutto imponendo di considerare situazioni ed eventi non definibili come criminalità. In secondo luogo, questa ottica mette in luce come la maggior paura femminile sia in rapporto con una socializzazione alla debolezza, alla dipendenza e all’evitazione dei rischi, in contrasto con la prevalente socializzazione maschile. Se, dunque, l’assunzione del genere si è rivelata fondamentale per sbarazzarsi del pregiudizio di “irrazionalità” della paura, essa potrebbe anche servire, cosa fin qui trascurata, a mettere in luce la complessità della vittimizzazione: dato e non concesso che le ricerche vittimologiche misurino in maniera del tutto tecnica qualcosa di tecnicamente definibile, esse ci dicono al massimo quali rischi corriamo in base alle persone che siamo e allo stile di vita che conduciamo. Ma quanto accettabili siano questi rischi, quanto bassi o alti, chi lo decide, e in base a quali parametri?

La ricerca condotta da Carmine Ventimiglia e da me in tre città dell’Emilia-Romagna (Bologna, Piacenza, Ravenna) parte da alcuni assunti che sono comuni alla maggior parte delle ricerche straniere che adottano un’ottica di genere. Noi volevamo in primo luogo esplorare le dimensioni della sicurezza del variegato e diversificato universo femminile in termini soggettivi e oggettivi, dove con soggettivo abbiamo inteso ciò che si dice di temere e non temere e oggettivo il modo in cui effettivamente la città viene usata. Abbiamo, insomma, lavorato con un concetto di sicurezza oggettiva non descrittivo del rischio di vittimizzazione, ma misurato invece sugli atteggiamenti, i comportamenti, gli stili di vita inconsapevolmente improntati all’autoprotezione e all’evitazione dei rischi che limitano in maniera significativa il raggio delle opzioni di uso della città da parte delle donne. Non sorprendentemente, il sentimento di insicurezza femminile ci è risultato collegato sia alla percezione di vulnerabilità sessuale storicamente connessa alla costruzione del femminile, sia alla percezione del grado di controllo che si ritiene di avere sulla propria vita. La ricerca ha anche offerto spunti interessanti per una comparazione tra percezione femminile e percezione maschile che potrebbe aprire a un’analisi delle modalità culturali di costruzione del pericolo.

In sintesi: la socializzazione femminile enfatizza l’evitazione del rischio, quella maschile è invece perlomeno ambivalente su questo punto. I tipici eroi maschili non solo non hanno paura, ma si mettono alla prova continuamente, mettono a repentaglio la propria vita, qualche volta per il bene comune, o per proteggere i deboli, ma altre volte per puro piacere, per dimostrare il proprio coraggio, la propria virilità. Se l’evitazione del rischio è l’unico atteggiamento ritenuto razionale per le donne, non è così per gli uomini. La stagione tipica del correre rischi per i maschi è l’adolescenza e la gioventù. Questo è tanto vero che, come emerge dalla nostra ricerca, le preoccupazioni dei genitori per figli e figlie adolescenti sono molto diverse: per le seconde, si teme che possano essere oggetto di vittimizzazione a causa della loro “debolezza”, per i primi, si teme che possano cacciarsi loro stessi nei guai. Si potrebbe allora pensare che, almeno in parte, la minor paura maschile rilevata dalle ricerche abbia a che fare con la reticenza ad ammetterla, e viceversa la disponibilità ad ammettere che si ha paura per gli altri (donne, bambini, anziani), in coerenza con un altro aspetto del maschile, ossia l’assunzione per sé dello statuto e del compito di protettori; ma si può anche pensare che gli uomini abbiano maggior dimestichezza con alcuni tipi di rischio, avendoli corsi nella fase adolescenziale. Le due cose non sono in contraddizione: si può aver paura e tuttavia “correre rischi”, perché così è prescritto nel modello di comportamento ritenuto normale per i propri simili. Non sorprende, allora, che sia le donne che gli uomini abbiano paura degli uomini: le figure del pericolo, insomma, sono (realisticamente) maschili per tutti e due. Ma, se le donne ne hanno piena consapevolezza, indicando spesso nei “maschi in genere” la fonte del disagio, gli uomini non sembrano rendersene conto. Donne e uomini, insomma, sembrano abitare città in larga misure diverse, ciò che rende piuttosto improbabile parlare di e progettare politiche neutre di sicurezza cittadina Una città sicura per gli uomini non è necessariamente una città sicura per le donne. Si potrebbe invece argomentare che una città sicura per le donne è una città sicura per tutti. Ma se l’insicurezza femminile è legata, da un lato, a una socializzazione all’evitazione dei rischi e, dall’altro, alla sensazione di scarso controllo sulla propria vita, politiche sensate per la sicurezza sono quelle mirate alla produzione di condizioni e risorse per sostenere e incrementare l’autonomia femminile e rendere razionale, o perlomeno ragionevole, “correre rischi”: l’esatto contrario del senso comune spesso prodotto dai dibattiti sulla vittimizzazione, piegato viceversa a legittimare politiche di tutela rafforzata e sterilizzazione del territorio.

* Docente di Sociologia del diritto, Università di Camerino