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Molti hanno sempre considerato, o considerano ormai le attività di riduzione del danno come appartenenti di fatto alla dimensione delle “cure palliative”: di quelle cure cioè (peraltro importantissime) che solo negli ultimi decenni la medicina ha cominciato a valorizzare, e che sono applicate ai pazienti che non hanno possibilità di guarigione, né di sopravvivenza a lungo termine. In sostanza la riduzione del danno come soccorso ultimo per i soggetti più marginali meno curabili, e meno salvabili.

È proprio questa visione – diversa ad esempio da quella di Letizia Moratti, che di riduzione del danno non vuol proprio sentir parlare – che si vorrebbe analizzare, criticare e superare nella prossima conferenza latina su questo tema, la “Clat 4”che si terrà a Milano, dal 29 novembre 2007.
La polemica contro la visione per così dire “palliativistica” della riduzione del danno è emersa nelle prime riunioni preparatorie della Conferenza di Milano: ma è indubbio che all’interno di quell’appuntamento peserà anche la necessaria battaglia politica e culturale contro le posizioni radicalmente ostili ad ogni mediazione o compromesso con i consumatori di droghe illegali quali quelle dell’attuale sindaca di Milano, di Fini e della parte più ideologizzata degli operatori privati.

È altrettanto indubbio, peraltro, che una parte almeno della marginalità economico-amministrativa, di cui soprattutto in Italia soffrono gli operatori di questo settore, è dovuta anche al presupposto culturale della riduzione del danno come “rimedio per i disperati”, e basta. Si tratta di un presupposto che è ampiamente diffuso anche tra coloro che si sono battuti contro la Fini-Giovanardi e contro le posizioni più repressive.

È una tenaglia che stringe da due lati le sperimentazioni più innovative, dunque: la sottovalutazione culturale che non vede la riduzione del danno come modello possibile per le politiche pubbliche (confinandola, perciò, ad una sorta di artigianato di nicchia), da una parte; e la cieca ostilità di chi è pregiudizialmente contrario ad ogni compromesso e ad ogni mediazione con i consumatori di sostanze illegali, dall’altra. Ambedue questi approcci hanno in comune la stigmatizzazione dei consumatori, tendenzialmente “pietosa” in un caso, sprezzante e aggressiva nell’altro: ed ambedue portano di fatto allo strangolamento amministrativo, per così dire, dei “progetti” che non riescono a diventare veri e propri “servizi”. Si rischia così di fare delle attività di riduzione del danno nel nostro paese, crescenti e innovative fino a qualche anno fa, una sorta di “promessa” tradita: con il permanere di una vivacità di pensiero e di dibattito alla quale corrispondono però difficoltà operative crescenti e un rischioso isolamento culturale.
Ambedue gli approcci che abbiamo descritto, inoltre, rischiano di convergere nell’inibire, di fatto, l’allargamento della riduzione del danno dalle tradizionali unità di strada, verso forme anche nuove, capaci d’intercettare i consumatori “ludici” e “ricreativi”: con le loro specifiche, e spesso pericolosissime, forme di abuso (non necessariamente connesso alla dipendenza) e i loro nuovi stili di consumo, che vanno dal “problematico” al “controllato”. Servono per queste nuove soggettività, nuove risorse, e operatori formati in modo nuovo o fortemente aggiornati, ma l’idea della riduzione del danno solo “per gli ultimi” marginalizza nei fatti quella dimensione; mentre permangono le cosiddette marginalità dure, e anzi si espandono, con l’abuso e la dipendenza per vie non iniettive, il ritorno dell’eroina, l’arrivo di oppio e ketamina, il problema dei migranti.
Tutto ciò mentre l’attacco ideologico (che ha sempre, direttamente o indirettamente, conseguenze amministrative) delle posizioni più intolleranti colpisce insieme unità di strada e Sert, metadone e interventi di nuovo tipo nei rave: delineando per l’insieme dei servizi più vicini agli utenti – e alla realtà – un comune sbocco involutivo e residuale. È una minaccia che richiede il non semplice sforzo, politico e culturale, di criticare i limiti del paradigma biomedico difendendo contemporaneamente la tenuta e l’adeguamento dei servizi: battendosi cioè per la sperimentazione necessaria che solo alcuni riescono a fare, ma anche contro la precarizzazione dei rapporti di lavoro che colpisce duramente quasi tutti. È anche questa la vasta problematica alla quale la Clat 4 dovrà per lo meno alludere: così come la riduzione del danno allude, in Europa e in Italia, a nuove forme della cittadinanza, a inedite e non paternalistiche articolazioni del welfare.