Tempo di lettura: 4 minuti

I test della droga sono entrati di prepotenza nel dibattito italiano, in questo scorcio di primavera del 2007. Non è la prima volta: già nel 2003 se ne parlò molto in seguito alla presentazione di due progetti di legge regionali, di un consigliere di An in Lombardia e di un assessore della Lega in Veneto, per sottoporre gli studenti a controlli periodici con test salivali: con l’intento di avvertire tempestivamente le famiglie in caso di positività. La novità stava nello sfruttare lo sviluppo delle tecnologie bio-investigative per coinvolgere gli insegnanti, ma soprattutto i genitori, in attività di intelligence domestica, allungando la mano del controllo al di fuori delle istituzioni preposte. I test si inserivano nel filone della “tolleranza zero”, che tanta fortuna ha avuto in America fin dai tempi di Reagan.
Per chi in Italia non lo sappia o finga di non saperlo, “tolleranza zero” non significa tanto l’approccio penale “forte”, quanto la stampella ideologica che lo sorregge, il famoso “just say no” di Nancy Reagan. In questa luce, l’introduzione dei test si presentava come il naturale corollario della proposta di legge Fini; che, si ricorderà, fu annunciata solennemente al meeting Onu di Vienna dallo stesso vicepremier di allora. Sempre a Vienna, l’Italia si allineava alla reazione americana contro le cosiddette lenient policies sulle droghe della maggioranza dei paesi europei. Quelle, per intendersi, della depenalizzazione del consumo personale; della riduzione del danno; della prevenzione ispirata al “just say know” (ossia al contenimento dei consumi, come obiettivo immediato, a tutela della salute dei consumatori in carne e ossa), contrapposta al “just say no” (ossia all’intransigenza sul principio dell’astinenza, in difesa dei “valori”). Quel “just say no” che in italiano suona esattamente come “consumi zero”.
Quattro anni dopo, i test sono agitati (anche) da esponenti dell’attuale maggioranza, come la ministra Turco, che a suo tempo si erano impegnati a riprendere il sentiero interrotto delle lenient policies. Come queste vadano d’accordo con lo slogan del “consumo zero” non è chiaro. Ma vuoi che di spericolate acrobazie di “politichese” si tratti, vuoi di un inedito saggio di meticciato culturale, è comunque un bene tentare di riportare il dibattito ai fatti e alle evidenze scientifiche. E alla storia.

L’idea di sottoporre gli studenti ad esami clinici per scoprire l’eventuale uso di sostanze illecite viene dall’America. Già alla fine degli anni ’90, l’amministrazione comincia a promuovere programmi per testare casualmente gli studenti che partecipano al doposcuola e alle attività sportive. Fin dal 1996, la American Academy of Pediatrics (Aap) prende posizione contro la pratica di sottoporre a test obbligatori i ragazzi.
Con l’avvento di Bush, la campagna per i test decolla definitivamente: nel 2002, lo Ondcp (Office of National Drug Control Policy), l’ufficio antidroga del presidente, pubblica le linee guida per sollecitare le scuole ad adottare i test. Nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2005, il presidente propone uno stanziamento record di 25 milioni di dollari per un programma che vede al primo posto proprio i test nelle scuole. Nel 2006, lo zar antidroga John Walters, forte di un budget di oltre 9 milioni di dollari, inizia un giro di promozione nel paese rivolto agli amministratori delle scuole.
Paradossalmente, ma non tanto, le fortune politiche dei test si costruiscono sulle ceneri degli interventi di prevenzione più diffusi, i famosi programmi Dare (Drug Abuse Resistence Education): introdotti a tappeto in tutte le scuole a cominciare dalle elementari, i corsi erano ispirati al classico approccio terrorizzante (scare approach), con ex poliziotti ed ex tossicodipendenti in giro per le classi per insegnare ai ragazzi a resistere alla pressione dei pari e “osare dire no alla droga” (dare, appunto). Nel bilancio 2006, Bush taglia completamente i fondi a questi storici programmi, ma rilancia coi test, con una mossa di escalation: svanite le velleità di indottrinamento (e tanto più quelle di persuasione) dei giovani, si punta al controllo puro e semplice. Come dire: se i discorsi non servono, ecco altri mezzi più “convincenti”.
L’interesse dell’amministrazione americana va di pari passo con la campagna di marketing rivolta dalle case farmaceutiche direttamente alle famiglie. Su internet, si possono acquistare direttamente prodotti per identificare le droghe nelle urine, nella saliva, nei capelli. Il prezzo dei test è elevato, specie per quelli del capello. È stato calcolato che il costo medio per ragazzo per il solo esame iniziale si aggiri sui 42 dollari. Ovviamente i test vanno ripetuti per rafforzare l’effetto deterrente sperato, e sono da rifare più e più volte in caso di esito positivo. È dunque un grosso business, che mette insieme le esigenze di mercato con la retorica della “lotta alla droga”. E spiega l’accanimento con cui l’amministrazione americana persegue il suo obiettivo, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche.
Nel 2003, il Nida (National Institute on Drug Abuse) ha finanziato una costosissima ricerca su larga scala nella speranza di dimostrare l’efficacia di questa politica. Dal 1998 al 2001, sono stati raccolti i dati sui consumi di 76.000 studenti di scuole medie superiori, provenienti sia da scuole con test che senza. Come spiegano le ricercatrici della Drug Policy Alliance, i risultati non hanno affatto confermato l’effetto deterrente dei test: le percentuali di studenti che consumano droghe nelle scuole che applicano i test sono sostanzialmente uguali a quelle delle scuole che non li applicano.
La Aap ha di nuovo preso posizione contro questa politica nel marzo del 2007, sottolineando, fra l’altro, gli aspetti eticamente controversi dei test. Infatti, la raccolta delle urine deve seguire precise e complicate procedure di garanzia che le scuole non sono in grado di assicurare. Ma non lo sono neppure i genitori che in ogni caso, per ragioni di etica e di tutela del rapporto educativo, non dovrebbero stare a guardare i figli mentre urinano.
Alla ministra Turco, che su Repubblica Salute (14/6/07) accusa i suoi critici di “ideologismi” avulsi dal merito, chiedo: anche l’Accademia americana di pediatria è diventata un covo di antiproibizionisti pregiudiziali?
Via ministra, di questi tempi non ci va di scherzare.