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Lavorare in Strada spesso vuol dire confrontarsi con situazioni di conflittualità in alcuni quartieri della città a causa della presenza dei tossicodipendenti. Che cosa significa in questi casi svolgere un intervento di Riduzione del danno attento alla tutela della salute di tutti i cittadini, tossicodipendenti e non? Recentemente a Ravenna ci siamo trovati alle prese con questi temi, prima in un confronto con la giunta che governa la città, e poi in un dibattito all’interno dell’equipe che gestisce il camper del Dipartimento Dipendenze Patologiche della Provincia. Come sempre, nelle situazioni di conflitto c’è il rischio di estremizzare. Così, se da una parte alcuni amministratori (e i cittadini che vivono in certi quartieri) possono pensare che le Unità di Strada attirino tossicodipendenti in determinate zone, dall’altra spesso noi operatori respingiamo in toto quest’idea, anche a costo di negare l’evidenza. E’ vero che le Unità di strada stazionano dove i tossicodipendenti si aggregano (e non il contrario), ma è altrettanto vero che alcuni tossicodipendenti si recano in queste zone proprio quando sono sicuri di trovarvi il camper, che quindi svolge un certo ruolo, anche se percentualmente forse non rilevante, di richiamo e di aggregazione. Ma, verrebbe da chiedersi, non è per l’appunto questo il compito delle Unità di strada? E’ impossibile contattare il popolo “sommerso” dei tossicodipendenti senza far emergere, almeno per pochi minuti, una possibilità di dialogo, di domanda e di risposta, di aiuto e di solidarietà possibile. Sicuramente i camper delle Unità di strada contribuiscono a rendere più visibile un fenomeno e aprono spazio ad interrogativi dei cittadini: che cosa fanno le istituzioni? Danno da mangiare ai drogati? Ma qui è pieno di siringhe! Ci sono anche i bambini che giocano qui vicino! Spesso queste domande vengono recepite come provocatorie, e forse sono veramente delle provocazioni rispetto al nostro modo di lavorare. Ma la riflessione sul modo di operare delle Unità di strada deve saper cogliere queste obiezioni e centrarsi maggiormente sulla modificazione dei comportamenti a rischio dei consumatori(a vantaggio loro e dell’intera collettività), uscendo da una logica centrata su ” quanti nuovi utenti riusciamo ad inviare ai Sert”. La nostra presenza può essere un dettaglio ma, citando Montalban, “un dettaglio che non illumina il quadro è solo una stupidaggine”. Siamo in grado, come operatori, di svolgere una mediazione nel territorio e di promuovere “salute per tutti”? E’ chiaro che così si evoca il fantasma del controllo sociale con i grandi interrogativi che ne conseguono, ma vale la pena di correre il rischio. . Offrire siringhe pulite, distribuire acqua distillata, salviette disinfettanti, preservativi, fiale di naloxone è sicuramente indispensabile (condizione sine qua non!), ma non sufficiente: l’operatore deve anche saper favorire una cultura di convivenza e di tolleranza, promuovendo tra i tossicodipendenti comportamenti di riduzione del danno e del rischio, per sé e per gli altri. Città più sicure per tutti (tossicodipendenti e non), servizi pubblici che sentono come propria competenza il tema della sicurezza urbana, operatori attenti al disagio del singolo ma accoglienti anche nei confronti del disagio collettivo, dei gruppi (di tossicodipendenti e non) che convivono in un territorio. Tossicodipendenti e cittadini non possono essere due categorie separate dalla presenza di una siringa. La cittadinanza per chiunque, tossicodipendente o meno, implica assunzione di responsabilità e riconoscimento dei diritti e dei doveri dell’altro cittadino, chiunque esso sia. Che anche questo sia lavoro di strada?

*responsabile Sert di Faenza