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Pochi, fra i numerosi recensori – il volume non è recentissimo – hanno colto l’implicito rilievo politico del libro di Elemire Zolla, Il dio dell’ebbrezza: antologia dei moderni dionisiaci (Einaudi, £. 26.000). Sebbene non sia assolutamente presente nel volume di Zolla un’opzione politica antiproibizionista, la laicità e il respiro culturale con i quali è affrontato il problema delle droghe spostano obiettivamente il livello, alquanto modesto, del confronto intellettuale su questo tema. “Oggi, dove tutto vi è confuso e disatteso, si può tuttavia ancora avvertire che ogni comparsa dionisiaca è un evento glorioso e una voragine che squarcia l’esistenza”. E’ questo il tono malinconico e appassionato del libro, che è costituito in gran parte da una riflessione nostalgica sul culto dionisiaco e sull’elaborazione culturale del tema “ebbrezza” all’interno della tradizione occidentale. Il pensiero di Zolla si sviluppa in modo radicalmente autonomo rispetto alla tradizione egemonizzata dal cristianesimo o dal razionalismo positivista: in opposizione sia alla demonizzazione clericale che vetero scientista dell’ebbrezza. “La teologia cristiana è in buona parte esoterismo dionisiaco” afferma perentorio lo scrittore, argomentando la tesi attraverso la comparazione fra la ritualità cristiana e quella dionisiaca. Zolla però non isola il fenomeno mistico-religioso, al contrario lo collega all’analisi della nascita e della diffusione degli stupefacenti nel mondo. E’ un passaggio culturale importante che ci consente di non scomporre ipocritamente il trinomio ebrezza-piacere-droga. “La storia degli stupefacenti è la storia intima dell’uomo”: questa espressione di Zolla potrebbe anche essere utilizzata come uno slogan contro il pensiero proibizionista e perbenista che gravita intorno alla problematica della droga. Certo la visione decisamente anticonformista di Zolla è anche fortemente aristocratica: il suo è uno sguardo rivolto al passato, per esempio alla Parigi ottocentesca di Baudelaire. Quest’ultimo, secondo l’intellettuale torinese, aveva capito “l’importanza dell’intuizione infantile” che ci dischiude le porte di una “pienezza sensibile”. Infatti, “il bambino vede tutto come una novità perché è immerso nell’ebbrezza”. Anche la cultura anglosassone del secolo scorso è un riferimento importante: Poe e De Quincey sono gli esponenti della “letteratura drogata”, ma anche uomini la cui vita è stata caratterizzata tragicamente dall’uso di alcool e oppiacei. Siamo insomma di fronte a una posizione dichiaratamente elitaria, che non sfocia però nel moralismo (“è l’ora di inebriarsi”, egli afferma) e nemmeno nella banale retorica della trasgressione. Il libro, in sé, mira essenzialmente all’approfondimento culturale e persegue questo scopo anche attraverso i pareri più discordanti, come quelli contenuti nei brani di Huxley (“L’isola”) e Tolstoi (“Perché la gente si droga?”). Si tratta di approcci culturali radicalmente diversi, ma comunque funzionali per sostenere una tesi: “L’uso consumistico degli stupefacenti adottato dai giovani nel chiasso delle discoteche allontana l’ebbrezza dionisiaca perché Dioniso liberava, quel chiasso soffoca e vincola”. In sintesi: la diffusione di massa degli stupefacenti ha comportato l’eliminazione delle componenti mistico-culturali, che sono state fagocitate dal consumismo e dalla filosofia dello sballo. E’ una visione per certi versi apocalittica, quella di Zolla, solo in parte condivisibile. “Ernest Junger tranquillamente provò ogni droga e varcò i cento anni, le masse ne sono avvilite e uccise in gioventù”: così il filosofo torinese. Noi forse diremmo, più semplicemente “leggere attentamente le avvertenze e le modalità d’uso”.

*Cgil nazionale, Ufficio diritti