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«Quindici o venti spinelli, cinque strisce di coca, dieci iniezioni di eroina, cinque compresse di ecstasy o anfetamine: queste le quantità massime consentite per il consumo personale, il cui superamento introduce una presunzione di spaccio e apre la porta a una condanna da sei a venti anni di carcere». Il messaggio che ha accompagnato la diffusione delle tabelle predisposte dalla Commissione chiamata a precisare la disciplina introdotta con la legge 2 febbraio 2006, n. 49, è chiaro e univoco, pur se resta tutta da verificare la sua resistenza di fronte alla complessità del reale. I pilastri della svolta repressiva in atto in tema di stupefacenti e tossicodipendenze sono noti: l’assimilazione delle droghe leggere a quelle pesanti, l’aumento abnorme delle pene per la detenzione a fini diversi dal consumo personale (elevate nel minimo a sei anni), la drastica diminuzione delle ipotesi di applicabilità dell’attenuante della lieve entità del fatto (esclusa dalla legge n. 251/2005 nel caso di reato commesso da un recidivo), l’aumento – qualitativo e quantitativo – delle sanzioni amministrative, comunque previste per l’uso di qualunque stupefacente in qualunque quantità. È in questo contesto che mutano il ruolo e la funzione delle tabelle previste dal testo unico n. 309/1990: da indicatore delle sostanze vietate a improprio sostituto del giudice nell’accertamento della finalità della detenzione. Il nuovo comma 1 bis del testo unico sugli stupefacenti prevede, infatti, la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa da 26.000 a 260.000 euro per chi «importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate a un uso non esclusivamente personale». E in due mesi di lavoro la solerte commissione ministeriale ha stabilito, per ciascuna sostanza, la «dose media singola» (corrispondente alla «quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente o psicotropo»), il «moltiplicatore variabile » («individuato in base alle caratteristiche di ciascuna classe di sostanze e con particolare riguardo al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie») e, infine, la «quantità massima detenibile» (determinata dal prodotto della dose singola e del moltiplicatore). Inutile dire che questa individuazione preventiva dello spacciatore virtuale è priva di ogni attendibilità fattuale e stravolge i principi fondamentali dell’equità, della logica e del diritto. Bastino alcuni flash. Primo. Moltiplicare per un numero determinato la «dose media singola» (anche a ritenere tale concetto dotato di una qualche dignità scientifica) può indicare, in ipotesi, il margine di pericolosità di assunzioni ravvicinate nel tempo ma è strutturalmente inidoneo a dire alcunché sulla finalità della relativa detenzione: definire spacciatore per legge chi detiene sedici anziché quindici spinelli è del tutto irrazionale e privo di riscontri nelle più comuni massime di esperienza. Secondo. La civiltà dei moderni ha abbandonato il sistema delle prove legali: nessuno può essere ritenuto colpevole in base alla direzione del volo degli uccelli, o al numero delle testimonianza d’accusa, o allo status dell’accusatore. La condanna esige, in ogni caso, un giudizio in concreto sorretto dal vaglio critico delle prove acquisite: cioè esattamente ciò che viene escluso dal sistema delle tabelle. Terzo. Per rendere praticabile questo distorto meccanismo, la legge ha costruito un inedito diritto penale dell’apparenza: secondo il comma 1 bis dell’art. 73 del testo unico n. 309 si è colpevoli non se si spaccia ma se le sostanze detenute «appaiono destinate a un uso non esclusivamente personale » (sic!). La domanda al novello Giustiniano è d’obbligo: cosa accade se la detenzione (data la quantità) sembra destinata allo spaccio, ma in concreto si accerta al di là di ogni ragionevole dubbio che così non è? Quarto. La responsabilità tabellare realizza, a ben guardare, l’introduzione nel sistema «del tipo d’autore» o, in altri termini, la trasformazione del sospetto in prova: la storia insegna, peraltro, che dal “sospetto spacciatore” è agevole passare al “sospetto terrorista”, al “sospetto delinquente” o all’untore di manzoniana memoria. C’è quanto basta per drastici interventi demolitori della Corte costituzionale e prima ancora, nei limiti della sua competenza, della magistratura. Sperando che non ce ne sia bisogno, avendo la nuova maggioranza parlamentare la possibilità di cancellare subito, con un tratto di penna, questo scempio etico e giuridico.