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Alla Conferenza di Bologna, un convegno intenso sulle droghe, la sessione parallela sulle comunità, coordinata da Teresa Marzocchi, recitava l’impegnativo titolo: “Le comunità come luoghi di libertà”.

Felice Di Lernia ha subito sgombrato il campo da ogni ipotesi nostalgica e agiografica: definire le comunità come luogo di libertà è raccontare un ossimoro. Quella figura retorica che a scuola ci dicevano riassumibile in termini come ghiaccio bollente, nano alto, ippopotamo snello. O che oggi, in campo sportivo, si potrebbe condensare in juventino onesto, milanista sfigato o interista vincente.

La storia di molte comunità per tossicodipendenti è stata a lungo il racconto della costrizione a consegnare la propria vita nelle mani taumaturgiche di qualcun altro.

Gli ostelli dello sciamano, diceva il titolo di un libro profetico uscito nel 1980, con sottotitolo Alle radici della tossicomania e del controllo istituzionale. Edizioni Senza Galere, altro ossimoro.

L’avvento della modernità aveva imposto la separazione tra salute e salvezza: la salute al medico, la salvezza al prete. Le comunità per tossicodipendenti sono riuscite a riunire le due figure, del guaritore che salva, del salvatore che guarisce. Da questo punto di vista non può stupire che don Pierino Gelmini, uno dei nuovi re taumaturghi, abbia definito di recente la teoria e la pratica della riduzione del danno come forma di minimalismo sociale e la somministrazione di metadone come la trasformazione di uomini e donne a zombie attraverso una droga di Stato.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito la tossicodipendenza come una patologia cronica a carattere recidivante. La conferma viene, paradossalmente, dal versante opposto, quello di alcuni fondatori di comunità che hanno posto la questione in termini di dannazione o salvezza. Avendo come riferimento il mito dell’uomo nuovo, raggiunto attraverso la distruzione del tossico per ottenere la santità.

La definizione dell’Oms sulla dipendenza da droghe può essere sicuramente addolcita: ci sono uomini e donne che riescono a risolvere il problema; altre che lo frequentano da vicino più o meno pericolosamente, riuscendo a starci dentro; altre che non ce la fanno, uscendo e rientrando come pendolari dalla campagna alla città; altre ancora che lo portano dentro di sé per tutta la vita.

Una situazione con più recidive rischia di diventare cronica. Esistono delle fasi acute, e sono momenti in cui le comunità possono tornare ad apparire come rifugio. Purché agiscano accoglienza e non rancore.

Invece spesso non accade così: il servizio pubblico e molte comunità, pur conoscendone l’insidia, vivono male le recidive. Come la Giustizia, dura con i ladri di un pollo, inflessibile con i ladri di più galline. Come se la fame potesse essere saziata una volta per tutte.

Invece di cercare di capirne le motivazioni e di valorizzare i naufraghi, si tende a negare nuove opportunità di approdo o a riproporsi sempre nello stesso modo, senza alcuna variazione sul tema. A sbagliare è sempre l’altro, mai la ricetta sicura del medico curante.

Vi è chi può avere una ricaduta appena mette i piedi fuori dalla comunità o dal carcere (qualche volta anche dentro), chi dopo mesi, chi dopo qualche anno, chi dopo molti anni. La vita offre, oltre a momenti di speranza, anche momenti di disperazione. E, quando si entra in queste tempeste, la tentazione di ricorrere ai lenitivi più conosciuti non è remota. È maledettamente vicina.

Le comunità come alternativa o come continuità con il carcere

Le comunità, diceva oltre dieci anni fa Guido Contessa, sono un impasto di prigioni, monasteri, fab- briche. In questo periodo molte fabbriche sono diventate reperti di archeologia industriale, i monasteri hanno conosciuto i silenzi dell’assenza, mentre le prigioni si sono riempite. Il paradigma delle comunità è stato la cura attraverso la segregazione. Poi molte hanno provato a differenziarsi, ma il problema che si pone oggi è quello di rovesciare il paradigma: la cura come educazione alla libertà e non alla coercizione.

In vent’anni il fenomeno della tossicodipendenza è cambiato sotto diversi aspetti: da espressione di élite degli eroinomani anni Settanta andati alla deriva ma ancora pieni di energie vitali, è diventato stile di vita quotidiano dei tossici “normali”, con lavoro a libri e conto in banca, fino a giungere negli ultimi anni a divorare i vinti, i marginali della globalizzazione. Oggi la cura, o meglio, il prendersi cura dovrebbe voler dire soprattutto accoglienza. Che, quando si presenta senza imporre condizioni, è in sé terapeutica.

Zygmunt Bauman ha tracciato le linee del legame forte che unisce l’irrompere della globalizzazione con il grande aumento della popolazione carceraria: negli Stati Uniti, dal 1975 a oggi, i detenuti sono aumentati del 700%. In Italia, nell’arco di poco più di dieci anni la popolazione carceraria è salita da trentamila a oltre cinquantacinquemila persone. Quindicimila sono tossicodipendenti, diciassettemila stranieri. Una recente inchiesta condotta da Terre di Mezzo in collaborazione con Ristretti Orizzonti tra i detenuti del carcere di Padova, ha rivelato che un detenuto su quattro, quando finisce la pena, trova come casa un ponte o una panchina.

Una buona parte degli ultimi è tossicodipendente. Spesso il carcere ha avuto il problema di cosa farne: per molto tempo li ha relegati ai topi o in reparti di contenzione. Poi ha scoperto di potersi trasformare in comunità: il carcere segregante lo è per natura, ha anche le sbarre, basta applicargli un po’ di terapia e la frittata è fatta. La strada per Castelfranco, a quel pun to, è spianata. Dal carcere che si fa comunità alla comunità che si fa carcere. Il controllo sociale abita sia dentro che fuori le mura, e le mura virtuali non sono migliori di quelle materiali.

Eppure, nel disegno del legislatore, l’idea di alcune misure alternative era curativa, non penale. L’affidamento terapeutico è così distante dal codice penitenziario che molti tribunali di sorveglianza non applicano, nel bene e nel male, restrizioni ed elargizioni previste per altre pene alternative. Ad esempio, la liberazione anticipata: se è una forma di cura e non di pena, non possono valere nemmeno gli sconti di pena.

Il potere e i diritti degli operatori sociali

Gli operatori di comunità conoscono l’interfaccia della condivisione. Sono fisicamente ed emotivamente vicini alle persone accolte. Il potere che esercitano non conosce la lontananza. Possono decidere quindi dei destini di una persona ma possono rimanerne soffocati.

Una bomba maneggiata male può far saltare chi la maneggia.

In altre parole, il potere nascosto degli accolti rischia di trasformare l’operatore in vittima, in colui o colei che soccombe. La sindrome di Stoccolma è dop- pia. Per questo è opportuno cominciare a parlare, oltre che di diritti degli accolti, di diritti degli operatori. Nella negoziazione si è in due, e ognuno deve rispetto all’altro. Il lavoro degli operatori di comunità è molto delicato, il loro coinvolgimento forte. È importante allora conoscere bene i meccanismi del potere e del contropotere.

In questa dinamica possono avere un ruolo significativo anche gli operatori alla pari. Sono l’esatto contrario degli ex tossici gerarchizzati. Svolgono la loro attività perlopiù nei servizi a bassa soglia, nelle unità di strada. Si tratta di persone che hanno cono- sciuto il problema della dipendenza da dentro se stessi. Se ne sono liberati con fatica, senza passare da giu- dicati a giudici. Costruiscono il loro lavoro sulla relazione, non sul condizionamento. L’obiettivo non è la salvezza dell’altro, ma il suo stare meglio. O meno peggio. Sul piano quantitativo e sul piano qualitativo.

Non esistono soltanto  i naufraghi delle droghe; esistono anche quelli delle terapie antidroga: carcere e comunità. Esistono persone che dopo anni di galera e di comunità non possono e non vogliono più conoscere l’imposizione di percorsi da trekking. Sono troppo provate.

Oggi nelle comunità non arrivano più i primi, ma gli ultimi della classe. Le persone ospitate sono segnate da lunghi, intermittenti, incontri con il carcere; appartengono in molti casi alla classe degli invisibili, che vengono cancellati dalle liste anagrafiche dei comuni risultando senza dimora; hanno rapporti familiari e affettivi sfilacciati o inesistenti; le condizioni sanitarie, anche quando non sono caratterizzate dalla sieropositività, appaiono problematiche, mentre la lunga assuefazione a terapie farmacologiche può indurle a viversi come malati cronici. La difficoltà a relazionarsi negli accolti è molto marcata.

Alcuni esprimono dopo un po’ di tempo di permanenza determinazione e desiderio di giocarsi al- l’esterno, attraverso l’acquisizione di un lavoro e di una casa; in altri invece prevale la paura del mondo esterno e il timore di non essere all’altezza della situazione. Per questo il percorso deve assumere i passi e i toni della persona accolta sul piano dell’autonomia personale: la comunità, a maglie larghe e a briglie sciolte, deve rimanere solo un punto di riferimento per chi ne sente il bisogno.