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Guai ad abbassare la guardia: la riduzione del danno non s’ha da fare, e soprattutto non s’ha da nominare. Parola di Robert Charles, sottosegretario di stato americano, all’indirizzo del direttore dell’agenzia Onu sulle droghe (Unodc), Antonio Costa. Condita dalla minaccia di tagliargli i fondi, tanto per renderla più convincente. E Costa scrive una lettera al «caro Bobby», rinnovando l’attestazione di fedeltà. Della quale neppure ci sarebbe stato bisogno, visto l’indiscutibile zelo del «caro Antonio» in favore dell’ortodossia proibizionista «made in Usa». Basti ricordare il suo abile insabbiamento della raccomandazione dell’Oms, che rivaluta le proprietà terapeutiche del Thc ridimensionandone i rischi. Tanto per inquadrare la vicenda. È la vigilia del meeting delle Nazioni Unite del 2003, gli americani preparano l’attacco alle lenient policies europee sulla canapa, mentre, dallo stesso pulpito di Vienna, Fini si appresta ad annunciare che la canapa «non è una droga leggera» e che perciò merita «punizioni pesanti». Sarebbe stato imbarazzante ritrovarsi sul tavolo un parere così autorevole che andava nella direzione opposta ai desiderata dei due patron. Meglio allora seppellirlo in un cassetto, senza far rumore, pensa il «caro Antonio» (cfr. Fuoriluogo, gennaio 2005). Un servizietto facile quello, assai più difficile è il compito odierno di reggere il bidone anti-riduzione del danno mentre nella stessa Onu altre agenzie, come l’Oms e l’Unaids,  sostengono apertamente pratiche eretiche quali lo scambio di siringhe. Per salvare vite umane dall’Aids (dicono loro), per insidiare la «guerra alla droga» (sospettano all’unisono i cari Bobby e Antonio). Così si governano le politiche globali sulle droghe. A pensarci, prende lo sconforto. Eppure è d’obbligo qualche riflessione, non poi così negativa.

In primo luogo, la (squallida) vicenda dimostra che lo scontro politico nell’arena internazionale è aperto più che mai. Siamo assai lontani dall’unanimismo dell’assemblea generale di New York del ‘98, all’insegna  del «mondo libero dalla droga». Due anni fa, al meeting di Vienna, il fronte dei paesi «guerrieri» apriva le ostilità, cercando una rimonta sui riformisti. Non sono mancati i contraccolpi, ma finora non hanno riguadagnato molto terreno. La Gran Bretagna, infischiandosene dei moniti dell’Incb (altro organismo Onu sulle droghe), ha decriminalizzato la canapa. Il Belgio lo ha fatto un mese fa. È vero che in Italia si sta discutendo il disegno di legge arcirepressivo del governo; ma è anche vero che questo era stato annunciato nell’aprile 2003, discusso in consiglio dei ministri nel novembre dello stesso anno, depositato alle Camere nella primavera del 2004. Nel febbraio 2005, siamo ancora alle audizioni preliminari degli esperti. Segno che qualche difficoltà c’è, e nel parlamento e nel paese. Per non dire che due mesi fa l’assemblea di Strasburgo ha approvato una mozione sacrilega, che denuncia le malefatte delle strategie repressive e chiede di impegnarsi di più sulla riduzione del danno. Il che la dice lunga sulla larga popolarità di questa strategia nei paesi della «vecchia» Europa, ma anche della «nuova».

Ma qualcosa va detto anche sull’Onu e sulla sua crisi. Non ci sono solo la scarsa trasparenza e gli eccessi burocratici. Il fatto è che l’agenzia antidroga dipende strutturalmente dai paesi donatori. Ben il 90% dei fondi provengono da lì, e sono per di più vincolati a progetti mirati decisi dai paesi stessi. Il che significa che anche i funzionari sono appesi a un filo, e hanno tutto l’interesse a compiacere chi deve aprire i cordoni della borsa. Così, di fatto, la politica dell’Onu è in mano ai paesi donatori, che sono, in ordine di ge- nerosità, l’Italia, gli Usa, la Gran Bretagna, il Giappone, la Svezia, e altri a seguire. Quattro paesi «guerrieri» in prima fila, anzi, in trincea. Ed è detto tutto.