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La legge 180 per il momento è al sicuro. Gli accanimenti riformatori sembrano dare tregua. Ma ricompariranno non appena le circostanze interne alla maggioranza di governo saranno più favorevoli. Sul fronte delle tossicodipendenze proposte di legge e culture restrittive agiscono di concerto. E mentre si discutono i servizi per le persone e con loro i diritti, la solidarietà, le opportunità, le libertà, la cittadinanza corrono rischi reali.

Si affacciano con prepotenza stili operativi che alludono a modelli culturali che sembravano superati o quanto meno ridotti nelle loro forza oggettivante, forme organizzative che polverizzano i servizi pubblici, sistemi “liberisti” che intendono valorizzare l’imprenditorialità privata e la competizione fantasticando una presunta libertà di scelta che finisce per privare di opportunità i soggetti più deboli e più esposti. Molte sono le evidenze ormai di come il sistema pubblico rischi, in questi nuovi scenari, di essere ridotto a una funzione di raccolta delle “scorie”, degli scarti del privato, sociale o mercantile che sia. Di come queste scelte di campo tendano sempre più a riprodurre l’intervento specialistico e a separarlo dai problemi legati all’esistenza delle persone, ai loro contesti, alle condizioni di vita, alle storie. E di come modelli scientifici e culturali, siano essi biologici, clinici, psicologici, alimentano lo scollamento dei servizi e degli operatori dalla realtà cercando di conquistare il monopolio del mercato. Il problema dello “scollamento” tra realtà e modelli, tra modelli causali di malattia, codici diagnostici e presenza concreta di singolari persone è ampiamente riconosciuto da tutti gli operatori del campo. Esso è pane quotidiano nelle discussioni dei gruppi di lavoro più attenti.

Poco tuttavia la psichiatria sembra riflettere sulla questione: da un lato è impegnata ad accreditare la sua improbabile legittimità scientifica omologandosi ai modelli biologici, dall’altro la infinita variabilità del quotidiano, la infinita ruvidezza delle esistenze e dei conflitti delle persone sembrano essere un disturbo, un accidente che la stessa psichiatria inutilmente tenta di scotomizzare, ignorare, accantonare, silenziare, delegare.

Ed è proprio questo il punto. La psichiatria appare, ritiene di assumere spessore e dignità soltanto quando si presenta con i modi del determinismo biologico, della neuropsicologia, della biologia molecolare, della genetica, col lessico delle neuroscienze. Ritiene di essere credibile quando diventa ricerca del farmaco “che cura la malattia”.

In realtà il campo della ricerca biologica sempre più correttamente sta evidenziando la limitatezza dei modelli biomedici, in rapporto alla vastità delle ormai infinite correlazioni tra innumerevoli mediatori chimici. Le conoscenze in questo campo vogliono essere messe in relazione con la persona con altre strade, con differenti strategie. Devono, possono, alimentare la dialettica e costruire tensioni intorno alla persona. Tuttavia questa sensata posizione sembra essere impraticabile per la psichiatria. E si moltiplicano i tentativi di spiegare riducendo a molecole emozioni, sentimenti, guarigioni, abilità, scelte singolari. La potenza dell’industria farmaceutica sostiene questi modelli che finiscono per diventare predominanti e totalizzare tutto il lavoro psichiatrico. Basterebbe pensare al recente congresso mondiale di Firenze del Wpa (World Psychiatric Association) e al gigantesco dispiegamento di forze di tutte le multinazionali del farmaco associate.

È evidente invece quanto articolato debba oggi essere il lavoro terapeutico-riabilitativo (e comunitario) e quanto poco appropriato finisce per essere l’intervento centrato su scelte monoculturali. Che siano biofarmacologiche, cliniche, psicologiche, sociologiche restano sempre terribilmente riduttive. Dopo più di vent’anni di sperimentazione del lavoro comunitario sia con i matti che con i tossici è possibile riconoscere le miserie prodotte da scelte e interventi monoculturali.

La riduzione dei servizi in luoghi di psicoterapia, per esempio, ha impedito la crescita di reti, di partecipazione; ha permesso l’affermazione di modelli privatistici; ha limitato la potenzialità del cambiamento avviato dal processo di riforma.

Soltanto per chiarezza e ancora per esempio una breve digressione sulla questione del modello psicofarmacologico.

Gli psicofarmaci – com’è possibile negarlo? – sono strumenti fondamentali nel trattamento del disturbo mentale: sono utili a far fronte a sintomi drammatici, a contenere lo scompenso, a lenire insondabili dolori personali, a sopportare le astinenze, a consentire più rapido accesso a percorsi di rimonta di abilitazione di emancipazione. Eppure quando il modello prende il sopravvento e diventa lo strumento per la lettura della realtà costringe ad operazioni tragicamente semplificatorie. Più banalmente di impoverimento quando accosta e confonde ambiti e dimensioni inconfrontabili. Dimensioni incompatibili tra loro in quanto riguardano la vita, la singolarità dell’esistenza, i sentimenti, gli affetti, le scelte individuali che vivono sempre in un loro singolare contesto, in una loro irripetibile temporalità. E intanto il modello influenza il rapporto tra le persone, la crescita e lo sviluppo dei servizi, le scelte organizzative, i programmi terapeutici.

Se la psichiatria continuerà a non riflettere su questo dato, si costringerà sempre più a modelli di estrema povertà. I farmaci in questo senso sono sottrattivi. Si collocherà nel campo delle scienze biologiche con adesione ancora maggiore delle altre discipline mediche, continuerà a proporre spiegazioni, misurazioni, definizioni a costo della perdita del senso e della dimensione singolare dell’esperienza. Le medie, le scale, le oggettive ed evidenti osservazioni, altri direbbe lo sguardo freddo e distante della clinica, poco hanno a che vedere con le persone, con i soggetti, con le singolari e molteplici identità. Perfino chi fa ricerca nel campo delle neuroscienze sa bene che il cervello medio è cosa ben diversa dalla singolarità del cervello, sa bene che ambiti differenti, diverse stimolazioni sviluppano reti neuronali e modalità di funzionamento differenti.

È paradossale peraltro che il modello biopsichiatrico continui a svilupparsi su un assunto mai dimostrato: la lesione del cervello. Nancy Andreasen, in un classico intervento del 1997 sull’American Journal of Psychiatry, nel descrivere il modello biopsichiatrico articola tutte le deduzioni, sviluppa tutto il discorso, fino alle più significative indicazioni terapeutiche, a partire dalla premessa che le lesioni del cervello seppur non dimostrate saranno sicuramente scoperte. Sulle lesioni da scoprire, to be discovered lesions, si fonda dunque il modello della ricerca. Fin qui, se si resta nel terreno delle ipotesi di ricerca, va tutto bene; è paradossale invece che sulle to be discovered lesions si fondino le organizzazioni dei servizi psichiatrici e per la salute mentale, le pratiche di intervento e i destini delle persone.