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Non è la prima volta che Fuoriluogo affronta il tema della filosofia neomanicomiale alla base sia del disegno governativo sulle droghe che della bozza di controriforma psichiatrica. Ciò che le accomuna è la “segregazione assistenziale”, come scriveva Maria Grazia Giannichedda (gennaio 2004). Nel caso della salute mentale, ciò si traduce nella creazione di istituzioni destinate a offrire “cura”, anche coatta, a categorie ampie di soggetti definiti “cronici” e disabili (mentre perpetua la logica, nonché l’esistenza, della vecchia istituzione del manicomio giudiziario). Nel caso dei consumatori di droghe, una delle novità sta nella (rozza, ma non per questo meno insidiosa) torsione custodiale della comunità terapeutica, che si configurerebbe come un “trattamento” sotto coercizione, destinato, nei fatti, a rinchiudere e isolare le (tante, tantissime) mele marce.

In questo numero iniziamo un viaggio (che continuerà nel prossimo) di approfondimento a monte, sui processi e sulle tendenze culturali che fanno da sponda a questo rilancio a tutto campo di servizi ispirati alla “cura e custodia”.

Abbiamo individuato un primo filo di riflessione, che tentiamo di seguire, senza perdere, speriamo, l’insieme della ingarbugliata matassa. Quello cioè della progressiva patologizzazione di comportamenti, ma anche di sentimenti e di esperienze di vita. O per meglio dire, la riduzione a “malattia”,

con la conseguente medicalizzazione e “farmacologizzazione” di ciò che in altri contesti, storici e/o sociali, era inquadrato piuttosto nelle problematiche esistenziali. Come spiega acutamente Michael Gossop nel suo bel libro Living with drugs, sempre più ci si rivolge al medico per il “male di vivere”: il medico offre la sua risposta di repertorio (lo psicofarmaco) e ciò consacra l’idea che si abbia a che fare con una patologia “oggettivata”, trattabile in scienza (se non in coscienza). Quanto poco in tutto ciò ci sia di “oggettivo”, per non parlare di scientifico, è bene illustrato dalla vicenda dei bambini curati col Ritalin, qui affrontata. Nel caso delle droghe illegali, la patologizzazione dei (differenti) comportamenti di assunzione è un processo più antico e di complessa valenza, portato storico della proibizione: proprio per questo il farmaco metadone, e più in generale il trattamento, sono profondamente influenzati dal significato, socialmente attribuito al consumo (e individualmente interiorizzato). Il che dovrebbe rendere particolarmente accorti sul ruolo dell’ambiente nell’evoluzione (e prima ancora nella definizione) della “malattia” della tossicodipendenza, senza rifugiarsi nella biologia, interpretata (appunto) come regno della “certezza”.

Qui sta il punto, e non tanto nella parola “malattia”. Poiché di per sé, la distanza fra “male di vivere”, malessere, malattia, potrebbe non essere così grande. A condizione di mantenere uno sguardo critico sul sottile crinale che distingue i termini. A condizione di non perdere il senso del continuum fra salute e malattia, il filo dell’oscillazione fra “normalità” e “disturbo”, indispensabile per comprendere la sofferenza umana. Dando, di conseguenza, parola a chi soffre. Al contrario, nelle culture neoautoritarie la parola malattia è usata con valenze di definizione, catalogazione, distinzione certa fra normali e malati, segregando gl iultimi. E sottraendo loro le famose “parole per dirsi”.