Tempo di lettura: 6 minuti[Giuseppe Dell’Acqua, Angela Pianca, Luciano Comida] Il 16 e 17 maggio 2003 nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino si tenne un importante convegno. In preparazione dell’incontro, gli internati avevano chiamato un gruppo di giovani attori e Giuliano Scabia. Costruirono un grande drago. Volevano affidare al drago le loro ragioni, la loro disperazione, le loro speranze. Che portasse fuori queste cose, che dicesse, che trovasse amici disposti a battersi con loro.

E il drago di Montelupo chiamò Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro che trent’anni prima aveva abbattuto i muri del manicomio di Trieste. Marco Cavallo chiamò l’Accademia della Follia, teatranti matti, per viaggiare in compagnia e insieme in- contrare il drago.

Al convegno si parlò dei fatti che in quei luoghi accadono. Di come trovare strade diverse. Esperti sedicenti, inglesi e francesi anche, dissero il loro pessimismo e tentarono di convincere della assoluta necessità del manicomio criminale e dell’ineluttabilità della follia, della pericolosità, della inguaribilità… Gli internati vollero partecipare con le loro storie, con le loro parole. Infine nel bel mezzo del convegno Marco Cavallo parlò. Il Drago e gli internati avevano tante cose da chiedere al vecchio cavallo. L’emozione fu grande, memorabile. Tutti capirono e piansero. Solo gli esperti restarono impassibili ed estranei. Quel giorno uscirono tutti per le strade di Montelupo. Gli internati, gli operatori, gli amici, il sindaco di Montelupo, il direttore del manicomio, il prete, gli attori, i musicanti. Anche gli esperti, stranieri e increduli. Per il professore inglese fu proprio impossibile capire cosa stava accadendo.

In testa il Drago di Montelupo e Marco Cavallo.

Marco Cavallo: Era una limpida domenica di marzo, spazzata dalla bora quando tentai di uscire dal manicomio. Ormai non potevo più starci, rinchiuso là, ero diventato troppo grande. La mia pancia era stata riempita dai desideri di tutti i matti di San Giovanni. Dall’orologio dorato di Tinta al porto con le navi della giovinezza di Ondina, dalle tante Marie al fiasco de vin, dalla casa in affitto alle scarpe nuove, al volo, al viaggio, alla corsa, all’amico, dalla partita de balòn alla libertà: ero troppo appesantito da quel carico di bisogni e desideri che mi portavo dentro. Allora io, fremendo e nitrendo, a testa bassa, iniziai una corsa furibonda, come impazzito, verso la porta principale e, senza più esitazione, oramai di gran carriera, aggredii quel pezzo di azzurro e di verde oltre la porta. Saltarono gli infissi, si infransero i vetri, caddero calcinacci e mattoni. Io arrestai la mia corsa nel prato, tra gli alberi, ferito e ansimante, confuso col blu del cielo. Gli applausi, gli evviva, i pianti, la gioia guarirono in un baleno le mie ferite. Il muro, il primo muro era saltato.

E subito la libertà: i muri del manicomio frantumati, la fila infinita di matti che dietro a me escono dalla breccia e si perdono per le vie della città, con Boris che ci accompagna suonando la fisarmonica. Quante ne ho viste da allora…

Ci aveva fatti così felici, la legge 180. E invece…

Non è stato mica tutto facile. Quante ne abbiamo passate…

Io, fin da quando sono nato, mi ricordo del caso Savarin. Era uno che aveva… che aveva fatto… va beh, è uno che aveva fatto quello che aveva fatto. Uno che poi, dopo aver fatto quello che aveva fatto, era finito in manicomio criminale, nell’ospedale psichiatrico giudiziario, l’Opg.

E già in quegli anni… parlo del ‘73, del ‘74… cercavamo di far qualcosa per tirarli fuori di là. Ma allora… cosa si poteva fare allora? Andarli a trovare, portargli un pacchetto di sigarette, e poco altro.

Eh sì, quante ne abbiamo passate.

Cosa ho visto, io. Che postacci brutti. E quanta gente rinchiusa che fremeva di vita per uscire fuori.

E adesso che li ho visti praticamente tutti… Perché di manicomi giudiziari non c’è mica solo Montelupo, eh!

In Italia ce ne sono sei di manicomi giudiziari. E più di mille persone ci stanno chiuse dentro. Poche? Tante? Mah…

E allora io penso che, e voi pensate che, e tutti pensano che. E tutti dicono che. E anche le buone signore che propongono le controriforme dicono che…

Ma che cavolo ci fanno ancora in piedi i manicomi criminali? Bisogna chiuderli tutti quanti. E subito.

Ma… ma voi… voi siete qui! (rivolgendosi a un gruppo di ragazzi internati)

Caro Drago, care amiche e cari amici di Montelupo Fiorentino, ho accettato questo vostro invito perché so che voi qui state facendo quello che noi abbiamo fatto a Trieste.

Io penso e tutti i miei amici pensano e anche esimi dottori ed illustri scienziati lo pensano e anche i ricercatori e gli studiosi lo pensano e anche i giudici e i giuristi lo pensano e anche i poeti e i teatranti e gli scrittori e gli artisti lo pensano e anche voi lo pensate: il manicomio criminale va soppresso, buttato giù, sfondato, disfatto, dismesso, distrutto, aperto, cioè chiuso. Insomma chiuso.

Drago: Ma come si fa?

Marco Cavallo: Voi lo sapete molto bene… quello che i manicomi giudiziari sono.

Luoghi orrendi, sono. Istituzioni che vorrebbero curare la malattia e contenere la pericolosità e la malvagità degli uomini. Ma che invece, come tutte le istituzioni totali, tutte ma proprio tutte, la malattia la riproducono e la violenza e la malvagità la moltiplicano.

Perché invece di essere posti di cura, sono fabbriche di malattia.

Perché in manicomio matto sei e matto resti. In carcere criminale sei e criminale resti.

I manicomi giudiziari riproducono il peggio del peggio del manicomio e il peggio del peggio della galera. A Trieste, proprio perchè abbiamo rotto i muri, abbiamo scoperto che dietro quei muri c’erano tanti uomini e donne. E che si può ascoltarli. E abbiamo scoperto che perfino le medicine, fuori dal recinto, possono essere buone. E che le parole e gli sguardi e le mani permettono di avvicinare le persone. Per sentire il loro male. Per sperare di guarire, di stare bene. O almeno di stare meglio.

Invece, dietro le mura, tante storie tristi o disperate si confondono. E le persone, le loro storie le perdono. Ma come si può pensare di vivere senza la propria storia? Io la mia ve la sto raccontando, se no cosa potreste capire di me?

Insomma, non c’è verso. Bisogna aprirli, cioè chiuderli. Punto e basta.

Dario: Ma come, Marco Cavallo?! Cosa diranno fuori? Che si chiude il manicomio giudiziario e poi… E poi ci lasciano liberi tutti?

Charlie: E che quelli che hanno commesso reati orrendi li mandiamo fuori – diranno.

Sandro: Ma cosa diranno? E chi protegge la società? – diranno.

Francesca: E chi tutelerà i nostri figli da questi pericolosi matti che ne hanno combinate tante? – diranno.

Marco Cavallo: Capisco queste preoccupazioni ma voglio dire una cosa che ho imparato in questi anni. Da Basaglia in persona. Altro che mostri, gente impaurita e strade deserte! È dietro le mura che nascono i mostri.

Francesca: E cosa diranno? Che questi pericolosi matti che ne hanno combinate tante staranno fuori come quei bravi cittadini che hanno sempre osservato la legge? Ma ci pensi?

Marco Cavallo: Piano, piano.

Mica è facile affrontare questo problema. È spinoso e contraddittorio, direbbe un serio professore, contraddittorio! Qua la faccenda si fa davvero bigolosa, come diciamo a Trieste.

Io sono vecchio. Mi permettete di fare un po’… ma poco poco… di storia?

Tanti anni fa, quando sono nati i manicomi criminali, la psichiatria dei tribunali dava tutta la colpa e la responsabilità dei crimini alla follia.

Come se la persona non esistesse nemme no, come se al posto della persona avesse agito solo la sua malattia, la sua follia. Come se al posto di Francesca, di Charlie, avesse agito la follia.

Ma io vi chiedo: il pittore Van Gogh, quando dipingeva, era lui che dipingeva o al suo posto dipingeva la follia? Vogliamo togliere il nome di Van Gogh dai cataloghi delle mostre di Amsterdam e di Firenze per metterci cosa al suo posto? La follia?

E gli scrittori Proust e Saba e Pavese e Philip Dick e Dino Campana quanti altri ancora non ve li sto a elencare…, ma sono tanti e tanti… quando scrivevano, erano loro a scrivere oppure la loro depressione o la loro schizofrenia?

Voi lo sapete meglio di me. In manicomio, in manicomio giudiziario, ti dicono che tu non sei più tu!

Primo Levi… lo conoscete, voi?… è uno che è stato in campo di sterminio nazista ad Auschwitz, ha scritto: «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere anche se stesso».

Beh, Primo Levi scriveva dei campi di ster minio ma è come se parlasse anche dei manicomi. Tu non sei più tu, Pasquale. Né tu, Francesca. Né tu, Dario. E nemmeno tu, Pilade. E neanche tu, Charlie. Voi non siete più voi.

Perché qua non ti hanno solo tolto tutto, ma proprio tutto tutto tutto, ma anche quell’azione per quanto tragica per cui tu sei finito qua dentro. Anche quel gesto te l’hanno portato via, nemmeno quell’azione ti appartiene più. Qua dentro, qua in questo manicomio, non c’è più la tua vita. Non la trovi più.

E anche se, come stiamo facendo oggi, si aprono le porte per un giorno, tu continui a non esistere.