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«Il potere logora chi non ce l’ha», proclamava arguto e sfottente uno dei più rappresentativi e longevi governanti della Prima Repubblica, Giulio Andreotti. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e anche lui, assieme a tanti suoi compagni di partito e di governo, al pari di leader di formazioni avverse e concorrenti, come Bettino Craxi, si recava presso Rimini a recare omaggio e sostegno a Vincenzo Muccioli. Il fondatore della comunità di San Patrignano era divenuto uno dei personaggi più popolari dell’Italia di quegli anni. Trampolino di lancio erano stati, paradossalmente, le accuse e i conseguenti processi giudiziari contro di lui, che invocava leggi più repressive sulle droghe: «Basta con la liceità di bucarsi, basta con il compiangere il tossicodipendente e concedergli la modica quantità», tuonava sui giornali. Una filosofia di coazione e contenimento, conseguentemente, era alla base delle metodologie della sua struttura. La bontà del fine giustificava i mezzi utilizzati per raggiungerli. Tanto che alcuni suoi operatori e lui stesso vennero imputati nel cosiddetto “processo delle catene” per sequestro di persona e maltrattamenti. L’esito fu una condanna in primo grado, il 16 febbraio 1985, seguita dall’assoluzione in appello, nel novembre 1987. Un nuovo processo, nel 1994, vedrà Muccioli imputato e condannato per favoreggiamento, ma assolto dalla più grave imputazione di concorso in omicidio colposo, relativamente alla morte di un giovane tossicodipendente, Roberto Maranzano, avvenuta a San Patrignano nel 1989 a seguito di uno dei pestaggi punitivi che – è emerso da svariate testimonianze – nella comunità venivano inflitti a persone che tentavano la fuga, si rendevano responsabili di violazioni delle regole o, semplicemente, si mostravano indocili.

Le molte udienze, affollate di giornalisti e di sostenitori, e le assoluzioni moltiplicarono a dismisura la fama e il consenso di cui già godeva Muccioli, che si presentava, e veniva accreditato da quasi tutti i media, come “salvatore” di migliaia di ragazzi e ragazze di cui nessuno sapeva e voleva occuparsi, secondo la sua stessa narrativa. Indubbiamente, non erano pochi i famigliari, travolti dal dramma e dall’impotenza, a preferire i figli incatenati in una porcilaia piuttosto che “liberi di drogarsi”.

Tra il bene e il male

Per parlare di loro, arriva ora su Netflix SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, con la regia di Cosima Spender, una docuserie in cinque puntate nata da un’idea di Gianluca Neri, che con equilibrio ed efficacia ci restituisce una memoria colpevolmente rimossa. Ne esce un dolente affresco d’epoca, dove risulta evidente il tentativo di superare il manicheismo col quale l’Italia intera visse quegli avvenimenti e giudicò i suoi protagonisti.

Dai tanti testimoni di cui vengono proposti il racconto e i ricordi emerge una umanità variegata, diversamente tormentata, giustificatoria o autoassolutoria ma sempre e comunque ricca. Un quadro complesso, contorto e sofferto che, anche indipendentemente dalle singole narrazioni, aiuta a comprendere l’intrinseca insufficienza, per non dire la fallacia, del metro di misura oppositivo male/bene, giusto/sbagliato col quale sinora ci si è perlopiù misurati sull’argomento. Uno solo dei testimoni, Fabio Cantelli, che in quel periodo ebbe la delicata responsabilità delle relazioni esterne a San Patrignano e la forza di separarsene criticamente, lo rende esplicito: «Concetti come libertà, volontà, male, bene vanno rivisti e bisogna avere il coraggio di non usarli come assoluti». E dalle sue parole, ma forse ancora di più dal suo volto, si capisce come non vi sia intento sminuente di quanto, anche di tragico, avveniva in quegli anni in quel luogo arroccato in una presunzione di autosufficienza. C’è, invece, vera e sofferta consapevolezza, esito profondo e maturo di un viaggio alla ricerca di quei significati che, in molti casi, in precedenza avevano portato alla dipendenza da sostanze e al rifugio illusorio nelle loro evanescenti e micidiali risposte. Un rifugio inevitabilmente presto sgretolatosi, per essere sostituito da quell’altro, quello apparentemente protettivo e paterno della comunità terapeutica, altrettanto precario e insufficiente, dove al potere delle sostanze era sostituito quello dell’autorità e della “salvazione”.

Il potere sulle persone può avere effetti inebrianti e di alterazione della realtà, proprio come una droga pesante. Ed è così che dalla “prima” San Patrignano si arrivò alla “seconda”, strutturata su scala industriale, catena di smontaggio e rimontaggio di vite all’insegna della cura coatta, dei pezzi rotti da riaggiustare. Alcuni dei quali, all’opposto, proprio lì si sono rotti definitivamente: come Natalia Berla e Gabriele Di Paola, di cui il documentario racconta il suicidio, per entrambi avvenuto nell’aprile 1989, e come Fioralba Petrucci, anche lei rimasta uccisa precipitando da una finestra della comunità “satellite” di Civitaquana nel giugno 1992, su cui invece il documentario non si sofferma. Eppure, è particolarmente illuminante, poiché, secondo testimonianze dell’epoca, quella giovane era morta dopo essere stata ripetutamente picchiata, il giorno prima di essere riportata a San Patrignano, dove non voleva tornare. «Fioralba sapeva troppo», titolò “la Repubblica”, che riferiva le dichiarazioni della madre Antonietta: «Mi ha confidato di un omicidio avvenuto a Sanpa». Era l’omicidio Maranzano, che venne alla luce solo l’anno successivo, grazie alle rivelazioni di un ex ospite, Franco Grizzardi.

Sorvegliare e punire

Il passaggio dalla prima alla seconda fase di San Patrignano, tuttavia non è dipeso solo dall’accresciuta notorietà e dai consensi ricevuti dalla struttura e dal suo fondatore. Certo, da quello è derivata una sorta di delirio di onnipotenza, con Muccioli ormai sempre impegnato altrove, tra quotidiane ribalte televisive, incontri importanti e riconoscimenti in Italia e all’estero, costretto a delegare la gestione ad altri, a un “cerchio magico” che gli filtrasse ogni contatto. Ma maggiormente determinante è stato il nesso – che nella docuserie poco traspare – con il clima sociale e culturale. La fase iniziale della comunità sta temporalmente dentro la sperimentazione e il mettersi in gioco solidale e motivato che fece nascere numerose comunità e movimenti, nel contesto degli anni Settanta, con il suo portato di conflitti e di lotte, di diritti civili e di libertà, di onda lunga dell’antiautoritarismo del ’68 ben rappresentato, anche simbolicamente, dalla chiusura dei manicomi; in e di quel contesto San Patrignano rappresentava il controcanto, dove infatti spesso Muccioli si trovava ad attaccare la legge 180 del 1978, cosiddetta legge Basaglia. La seconda fase, negli anni Ottanta, è condizionata e, al contempo, anticipatoria della restaurazione politica e culturale, punitiva e disciplinare, allora in corso complessivamente nella società e, nello specifico, ben tradotta nella filosofia fortemente repressiva della legge sulle tossicodipendenze, cosiddetta Iervolino-Vassalli, introdotta nel 1990 ma di lunga gestazione, di cui proprio Muccioli fu il più deciso e ascoltato proponente.

Se il documentario sceglie di non addentrarsi nel dibattito politico, sociale e culturale di quella fase di crinale (non solo italiana, peraltro: la war on drugs e l’ipertrofia del penale e del carcere si affermano negli Stati Uniti in quegli stessi anni, per esportarsi ed estendersi in Europa e in modo particolare nel nostro paese), di passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, in compenso mostra bene gli albori e lo sviluppo di quel sistema malato di rapporto interdipendente tra media e processo penale spettacolarizzato che si perfezionerà di lì a poco negli anni di Tangentopoli, in quel caso con una indiscussa regia della magistratura, sulla scia dei precedenti processi per terrorismo. Diversamente, nella vicenda di San Patrignano è il potere mediatico che governa il gioco in autonomia, proponendosi classicamente quale megafono di una volontà della pubblica opinione invece sapientemente costruita e mobilitata.

Un microcosmo concentrazionario

Qual è stato, in definitiva, il modello SanPa? Non solo e non tanto catene, contenimento e violenza, che ne erano semmai semplici e ancora artigianali strumenti, bensì quello di sistema disciplinare e autoritario, economico e produttivo basato sul lavoro coatto e gratuito.

A differenza delle altre comunità, quella di Muccioli “seconda fase” è stata in grado di assicurare un’amplissima ricettività. Nell’ultimo bilancio sociale disponibile, quello del 2018, San Patrignano dichiara di ospitare «circa 1.200 persone» e di averne accolte dall’inizio ben 26.000, nonché di essere stata «concepita e tuttora strutturata come una vera e propria micro società».

Una rivendicazione o una ammissione, a seconda dei punti di vista. Ma certamente questo è un punto focale, che consente di leggere e meglio comprendere l’evoluzione, le scelte operate e i metodi utilizzati nonché lo stesso “gigantismo” di questa comunità dalla storia così peculiare. Una dimensione resa possibile non solo dagli spazi fisici che, dall’inizio, ha avuto a disposizione sulle colline riminesi e dall’imponente e continuativo sostegno finanziario assicurato dal petroliere Gianmarco Moratti e dalla moglie Letizia, in quel tempo presidente della RAI e in seguito sindaco di Milano, ma proprio dalle metodologie operative, laddove le altre realtà terapeutico-riabilitative hanno invece investito sull’aspetto educativo, cercando di assicurare strutture con un rapporto ottimale operatori/utenti. A San Patrignano è prevalsa l’economia di scala, con il lavoro come principale strumento rieducativo, nella pretesa di costituire, appunto, non solo una cittadella separata ma una società a sé stante, alternativa e autonoma. Un microcosmo concentrazionario e indipendente.

Se è vero che il lavoro (purché corredato da diritti e propedeutico al reinserimento nella società “vera”) può contribuire a riabilitare, l’ergoterapia in un universo chiuso e autoriferito altro non può essere che sistema di governo disciplinare di una comunità di individui non liberi.

SanPa ci racconta senza autocensure dei limiti e degli “effetti collaterali” di quel sistema ma anche, onestamente, dei risultati delle filosofie di “salvazione” sempre rivendicate da Muccioli. Nulla ci dice – e dunque non induce a riflettere, come sarebbe utile e necessario – sulla dimensione sociale e numerica dei “sommersi” (tra il 1973 e il 2000 il numero accertato di decessi per sostanze stupefacenti in Italia è stato di 16.955; dai primi anni Novanta, dopo la nuova legge, oltre 30.000 persone tossicodipendenti hanno continuato a entrare mediamente in carcere ogni anno) e sulle cause della loro “perdizione”. Che non possono essere attribuite solo e sempre agli effetti delle droghe in sé, bensì, in misura maggiore e determinante, al trattamento giuridico delle stesse e alla clandestinità e criminalizzazione che ne deriva per chi le consuma: si moriva (e si muore, anche se oggi non se ne accorge più nessuno) di overdose, ma si moriva (e si muore) anche di carcere, di AIDS, di repressione, di stigmatizzazione e di emarginazione in quanto assuntori di sostanze stupefacenti proibite.

Questo era e rimane il nodo che non può essere eluso.

[Fonte: Sergio Segio, Vita.it]