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È tossicodipendente o psicotico? È l’assunzione di droghe alla base del disturbo psichiatrico, o, al contrario, chi ne è affetto usa le droghe come automedicazione, per alleviare la sofferenza? Il secondo quesito è perlopiù oggetto di furiose contese fra i farmacologici, quando si disquisisce sulla nocività delle droghe illegali, nessuna esclusa: l’associazione droga/follia è da sempre un cavallo di battaglia dei proibizionisti più duri.
Il primo invece è assai popolare presso buona parte degli operatori, anche se ormai si è sedimentato in maniera apparentemente neutra: «È una doppia diagnosi», si dice con un sospiro. In effetti le dispute eziologiche sono vane agli occhi degli operatori, poiché la “doppia diagnosi” allude perlopiù ad una doppia prognosi di “incurabilità”. Ciò spiega come mai questi doppi pazienti non siano in realtà pazienti di nessuno, perché nessuno li vuole, come già denunciava Henri Margaron (Fuoriluogo, giugno 2004). Al contempo, la rassegnata esclamazione svela il significato profondo della definizione: le persone che non si sanno trattare, rientrano (o meglio riescono) dalle porte girevoli dei servizi come “intrattabili”, anzi come “doppiamente intrattabili”. Con ciò il malato “cronico recidivante” è condannato, ma la medicina è salva.
Per meglio comprendere le odierne fortune di tanto accanimento diagnostico, è bene riandare agli albori dell’intreccio tra tossicodipendenza e disturbo mentale. Si scoprirà così che la doppia diagnosi non è altro che una vecchia giubba rivoltata: alle origini della cura delle dipendenze (e della proibizione) tutti i tossici erano visti come malati “incapaci di intendere e di volere”, tanto che la legge del 1954 prevedeva il ricovero coatto.
Nell’incontro che si è svolto sul tema del consumo di droghe il 16 dicembre, nell’ambito del Secondo Forum della salute mentale, Giuseppe Dell’Acqua ha rievocato la battaglia di molti psichiatri negli anni ‘70, perché i tossicodipendenti e gli alcolisti non fossero più ricoverati in manicomio (che al tempo, com’è noto, esisteva ancora). All’ospedale psichiatrico, col suo eccesso di stigma, si sostituivano strategie di ascolto e di presa in carico della persona nell’unitarietà, e unicità, delle sue problematiche. Lo stesso percorso che avrebbe portato all’abolizione dell’istituzione totale anche per i matti.
A nessuno sfugge che, dietro quel mutamento di strategia, stava un diverso modo di leggere la malattia. Si può vederla dal punto di vista soggettivo di chi soffre, e allora la parola del paziente è fondamentale per “dire” (definire) lo “star male” e lo “star bene”, il disturbo e la guarigione. E si può cogliere e apprezzare anche lo “star meglio”: così la cura costruita intorno al soggetto si arricchisce di nuovi obiettivi, magari parziali, ma non per questo meno significativi.
Oppure si può scegliere lo sguardo esterno, della classificazione e catalogazione dei disturbi. Che è stigmatizzante perché rischia di ridurre l’individuo che soffre alla malattia. E che ad essa lo inchioda irreparabilmente, poiché solo la malattia quello sguardo è in grado di vedere, solo con la malattia quello sguardo è in grado di interloquire: «Tu non sei più tu, al tuo posto parla il disturbo. Tu non sei più tu, al tuo posto parla la droga». Come dire che la prognosi di “cronicità” è una profezia che si autoavvera, innanzitutto. E, in secondo luogo, annulla la linea d’ombra fra salute e malattia, discriminando, alla lettera, fra sani e malati.
Il conflitto intorno al doppio sguardo (centrato sulla soggettività del paziente, oppure sull’oggettività definitoria della malattia) oggi si ripropone con forza. E quale sia più consono alle politiche di segregazione assistenziale, che oggi si tenta di rilanciare, è facile immaginare. E quanto queste politiche si nutrano della paura diffusa del “diverso”, dell’intolleranza sociale per “l’altro”, perfino dell’odio verso ciò che è sconosciuto e che non si vuol conoscere, anche questo è facile immaginare. Atal proposito, mi è capitato di recente un episodio che mi è apparso illuminante. Sull’autobus, un viaggiatore, non più giovane e assai modestamente vestito, parla fra sé e sé, a voce alta, ma non troppo. Un delirio ben “strutturato”, sui pregi e i difetti dell’eterno femminino, ma senza recare disturbo a chicchessia. Arrivato alla fermata, il viaggiatore scende. Allora un secondo viaggiatore, giovane e di bella presenza, alza la voce. Lamenta che le autorità lascino girare indisturbate persone come il primo viaggiatore, «che prima o poi faranno del male a qualcuno». E lamenta che le stesse autorità se la prendono invece coi bravi cittadini: quelli come lui, ad esempio, denunciato (a piede libero) dai carabinieri per aver picchiato di santa ragione un marocchino. Che se le meritava tutte, visto che lui lo aveva scoperto a mettere le mani nella borsetta «di una connazionale». E sarebbe stato pronto a rifarlo, nonostante la “connazionale” non lo avesse difeso come si sarebbe aspettato, anzi aveva dichiarato di non essersi accorta del tentato furto.
Nessun commento, ma una sola domanda. Chi ragiona e chi delira? Chi è sano e chi è malato?