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La percezione di un aggravamento delle persone che fanno uso di eroina per via endovenosa è un dato condiviso sia dagli operatori dei Sert che delle comunità. Per altro verso, l’utilizzo più massiccio dei test psicodiagnostici nei servizi ed i primi studi italiani in merito, pur con differenze di non poco conto, indicano una prevalenza assoluta della comorbilità psichiatrica all’interno della popolazione tossicodipendente. In tutte le ricerche condotte emerge che, nelle situazioni di comorbilità, la dipendenza da sostanza stupefacente si associa sopratutto ad un disturbo della personalità. Il sistema dei servizi per le tossicodipendenze è pertanto criticato per aver sottovalutato per troppo tempo, e di trascurare ancor oggi la problematica psichiatrica retrostante ai comportamenti additivi. Per contro, chi da più tempo lavora con le persone che fanno uso di eroina, teme che, accanto alla concezione riduzionistica di tipo bio-farmacologico già affermatasi, si aggiunga, tramite una progressiva psichiatrizzazione della tossicodipendenza, un’indebita patologizzazione dei comportamenti di consumo.
Quali sono i cambiamenti che inducono gli operatori dei servizi ad una rappresentazione di maggiore gravità del fenomeno? Innanzitutto la “gravosità” dei loro comportamenti come utenti. Il concetto di gravosità non è sinonimo di gravità. Un “paziente” può essere grave ma non necessariamente gravoso, e viceversa. La gravosità riguarda in particolare il dover fare i conti, da parte degli operatori, con un crescendo di impulsività, di aggressività, e di imprevedibilità di comportamenti. C’è spiegazione per tutto ciò?
Un dato di riscontro ormai comune, nelle comunità e nei Sert, quale “l’invecchiamento” dell’utenza eroinomane, forse può offrire qualche primo elemento. Persone tossicodipendenti che oggi hanno 35-40 anni (la fascia di età più rappresentata nelle comunità, ma con punte .no a 55-60), hanno accumulato sulle loro spalle interi decenni d’abuso di eroina. Sono, in molti casi, persone sopravvissute ai loro “compagni di buco”, anche grazie agli interventi di riduzione del danno. Sulla loro strada hanno incontrato spesso il carcere, esperienze “fauste” di overdose, altri svariati “incidenti” di percorso, talvolta l’Hiv e l’Aids, quasi sempre l’Hcv. Le loro cartelle cliniche, presso i Sert, sono ormai spesse quanto il cassetto che le contiene. Hanno anche provato, spesso più di una volta, ad emanciparsi dalla dipendenza, ma senza successo. L’uso duraturo della sostanza si è coniugato con il procedere del ciclo della vita, con il venir meno degli aiuti della famiglia d’origine, con le richiesta di assunzione di maggiori responsabilità nei confronti dell’eventuale famiglia acquisita, con l’emergere di differenti bisogni connessi al deperimento ed alla mancata risoluzione delle esigenze di “sopravvivenza” quotidiana, in particolare allorché l’habitat è costituito dalla strada. Stress, conflitti, perdite e sofferenze, in tali situazioni, finiscono per pregiudicare ed interferire con equilibri psichici già precari. Ciò non comporta, né signi.ca, alcun approdo automatico alla malattia mentale, ma può rendere più fragili le difese usuali, irrigidirne i meccanismi, incrementare le reattività, indurre a far ricorso a modalità di funzionamento sociale ancor meno adeguate, a farsi cogliere in crisi d’ansia, di panico e di esasperazione.
A ciò si deve aggiungere lo stato permanente di marcato isolamento sociale, l’angoscia della solitudine e la paura del futuro. Ne deriva una più evidente conflittualità relazionale, una progressione di comportamenti aggressivi, una domanda di aiuto che assume sempre più la forma della “pretesa”, della “sassata sul vetro”, della minaccia. Sono queste le persone che vengono classificate oggi, nella stragrande maggioranza, come personalità antisociali e borderline, la cui “comorbilità” è il risultato della combinazione tra una dipendenza dura ed illegale, mai risolta, e scelte di vita che hanno radici lontane, che hanno anche a che fare con le culture ed i codici dei gruppi dei pari, con il ruolo di “tossico”costretto a comportamenti illeciti per via di un’abitudine a cui non intende o non riesce a rinunciare.
Ma la sostanza, l’eroina in particolare, non dovrebbe contenerlo, tranquillizzarlo, sedarlo, quantomeno nella fase “alta” del consumo? Ed è sul piano delle mutazioni del mercato dell’offerta di sostanze che si rintraccia un altro elemento a spiegazione dell’aggravamento dei comportamenti. L’immissione massiccia della cocaina, trasformata da prodotto d’elite a prodotto di massa, ha comportato per le persone tossicodipendenti per via endovenosa, un uso “misto e combinato” di eroina e cocaina in varie forme. Le stesse confezioni d’eroina per la vendita al dettaglio oggi presenti sul mercato illegale sembrano più cocainizzate ed anfetaminizzate. Tale composizione chimica stimolerebbe meno le modalità di estraneazione e di passivizzazione tipiche del consumatore di eroina, con le cui caratteristiche gli operatori dei servizi hanno ormai acquisito pratica ed esperienza, ma indurrebbe comportamenti antitetici, aumentando l’irrequietezza, l’ansia, gli sbalzi repentini d’umore, l’imprevedibilità, la rabbia e l’aggressività.
Infine merita attenzione un ultimo aspetto: c’è una nuova affluenza ai servizi, soprattutto di giovani e giovanissimi, a volte minorenni, caratterizzati da situazioni di forte sofferenza psichica, che, dopo aver sperimentato più o meno tutte le sostanze in circolazione, “scelgono” l’eroina perché rappresenta il “farmaco” maggiormente rispondente ad un bisogno ed una funzione di autocura.
L’utenza eroinomane per via endovenosa rappresenta ancora l’85% dell’utenza dei Sert.

Comunità terapeutiche al bivio

La domanda di comunità è calata dal 1996 ad oggi dalle 24.000 alle 16.000 presenze. In seguito ad una confluenza di fattori, oggi l’utenza in trattamento in comunità riabilitativa è circa l’8% del totale dell’utenza trattata dai servizi. Le comunità si sono generalmente trasformate in un più ampio sistema di strutture residenziali allo scopo di rispondere con maggiore efficacia alla differenziazione dei bisogni di aiuto e di cura dell’utenza, abbandonando una logica di tipo autoreferenziale che tendeva a renderle avulse dal contesto territoriale e da uno stretto collegamento con la rete dei servizi. Molte delle comunità, in base al principio della massima individualizzazione possibile degli interventi, si sono orientate ad accogliere gruppi omogenei d’utenza, cercando di meglio declinare gli obiettivi dei trattamenti a seconda delle caratteristiche e delle specificità dei diversi raggruppamenti. Sono nate così le comunità per madri e bambini, per le coppie, le case alloggio per le persone in Aids conclamato, le comunità per minori, per l’alcoldipendenza. In una prospettiva di servizio, all’interno del più ampio sistema di cura, sono invece stati creati i centri-crisi, le pronte accoglienze, le strutture di osservazione e diagnosi, gli alloggi a convivenza guidata finalizzati al reinserimento, tutta la rete della residenzialità e semiresidenzialità a bassa soglia.
Nel pieno corso di questo processo si è inserita la proposta di creare delle comunità per pazienti comorbili, persone tossicodipendenti con una problematica psichiatrica riconosciuta. Per quale comorbilità tossico-psichiatrica, quella grave o quella gravosa? Per i depressi gravi, per coloro che sentono le voci, per gli schizofrenici e per coloro che vedono nemici dappertutto, oppure per i “borderline” e gli “antisociali”, che pur conservano un senso della realtà e per i quali, nonostante le loro dinamiche oppositive, si rende praticabile un contesto riabilitativo? Il dibattito si è immediatamente aperto, forse più nei fatti che nel confronto teorico delle possibili opzioni, che si riducono sostanzialmente a due.
Nel primo caso la comorbilità tossico-psichiatrica, così come determinata dal sistema dei servizi inviante, dovrebbe rappresentare, e non solo in virtù dell’etichetta diagnostica, un insieme omogeneo di persone con bisogni simili ed obiettivi almeno parzialmente analoghi, per il quale viene declinata una speci.ca modalità di intervento. Ne consegue la creazione di una ulteriore comunità specialistica, che privilegia la presenza di professionalità psichiatriche al suo interno e fa congruo uso di psicofarmaci.
Il programma si articola in un insieme di trattamenti individuali in cui l’eccezione diventa la regola, perdendo necessariamente di vista la finalità di fare gruppo e di renderlo protagonista del proprio percorso riabilitativo. La forza del gruppo, il codice fraterno è il vero motore della comunità per persone tossicodipendenti, che, in una comunità psichiatrica è uno strumento più fragile e debole. In quest’ordine di considerazioni si basa la seconda opzione che, invece di creare comunità specialistiche dall’etichettamento “pesante”, integra, all’interno delle diverse comunità già esistenti e differenziate, le situazioni compatibili con la capacità della struttura di poterle gestire al meglio.
Le persone gravi e gravose vengono stimolate e fruiscono del “traino” del gruppo che, viceversa, impara a praticare nei loro confronti la necessaria tolleranza. Diversa è la situazione per quei pazienti psichiatrici conclamati, che sono utenti del Dipartimento di salute mentale e che abusano di sostanze e, nella maggior parte dei casi, non sviluppano una vera e propria dipendenza. Per loro appare tendenzialmente più indicata la comunità psichiatrica tout-court, così come concepita dal modello inglese di T. Maine e M. Jones.