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Pietralunga è uno di quei comuni italiani dove sembra che il tempo si sia fermato. La natura è rimasta così potente, tra boschi, ruscelli e picchi, che le rare case costruite dall’uomo o i campi coltivati con difficoltà, sembrano le parcelle di un’opera infinita di conquista impossibile. è per questo che piace a chi ha deciso di venirci ad abitare. C’è un muro di silenzio che ti separa dal resto del pianeta, rotto soltanto dal rumore dell’acqua che scorre tra i sassi o dal canto degli uccelli. La notte, dallo stridio delle civette o dei barbagianni.
E’ qui che Aldo Bianzino e la sua compagna Roberta Radici avevano deciso di venire a vivere. Via dalla città, dalle piazze di Roma o di Vercelli. Via dalla pazza folla in un posto dove il cellulare si sente a strappi, la connessione è lenta e comprare il latte è un impresa. Scelte. Scelte che con Aldo e Roberta fanno, volenti o nolenti, anche Rudra e sua nonna, la madre di Roberta, che vivono con loro. Il primo è ora un ragazzo che ancora vive nella casa di famiglia. La nonna è un’anziana signora che i nipoti accudiscono nell’antico casolare che hanno riattato in provincia di Perugia.
 
Il posto è ameno e difficile da raggiungere. In quelle strade polverose, che d’inverno ghiacciano e dopo il gelo si riempiono di buche, ti perdi facilmente. Ma il 12 ottobre del 2007, una macchina della polizia trova la strada senza difficoltà. Porta cinque poliziotti e un finanziere dell’unità cinofila con un mandato. Al termine della perquisizione, gli inquirenti trovano il bottino: un mazzo di piante di marijuana e 30 euro in contanti. Aldo si assume subito ogni responsabilità ma la polizia, che lo arresta, porta anche la compagna al commissariato di Città di Castello. Poi li trasferisce alla questura di Perugia e infine al carcere di Capanne. Aldo viene portato in isolamento e Roberta nel braccio femminile. A casa, soli, sono rimasti la madre di Roberta, che ha 91 anni, e suo nipote Rudra che ne ha 14: adolescente che una terribile storia ha destinato a diventare uomo in un solo giorno. Il resto è una brutta pagina di cronaca. A mezzogiorno del 14, due giorni dopo l’arresto, Roberta viene scarcerata. Chiede del marito. Dov’è Aldo? La risposta è secca quanto infastidita. La signora potrà vedere il marito… dopo l’autopsia. Aldo è morto. Un malore. Succede. Il caso è chiuso. Arrivederci signora e buone cose.
 
Tutta la vicenda di Aldo è ricostruita con precisione da un dossier che si può trovare in rete e che è stato messo a punto dal Comitato “Veritàperaldo” che, subito dopo la sua morte, è nato tra amici, conoscenti, cittadini. Faceva il falegname Aldo, e quando andammo a casa sua alcuni giorni dopo la vicenda (Roberta, in seguito uccisa da un tumore e forse da troppo dolore, era ancora viva), nella falegnameria, tra l’odore del legno e le assi messe a stagionare, c’era ancora la sua giacca appoggiata su un tavolo. Come se fosse andato via per poco. Come peraltro sarebbe dovuto accadere se vi trovano con un mazzo di piante di erba e la favolosa somma di euro 30. Soprattutto se siete incensurati. Al più un controllo e la denuncia a piede libero, suggerirebbe il buon senso. Ma Aldo finisce in isolamento. E a casa non ci torna. La notizia della morte e di quanto avviene dopo, resta per un po’ confinata nella cronaca dei giornali locali e nell’ostinazione professionale di una giornalista de “La Nazione” a cui quella morte sembra troppo strana. C’è anche un avvocato che, ben conscio che da quel caso difficilmente ricaverà una lira, di ostinazione ci mette anche la sua. è uno stimato professionista di Città di Castello Massimo Zaganelli e forse, dopo aver conosciuto Roberta e Rudra, di quella vicenda se ne fa un punto d’onore personale e umano più che professionale. Ci lavora sodo. Riesce a predisporre una nuova autopsia facendo riesumare il cadavere. Chiama periti ed esperti. Prova a sfondare il muro di gomma del carcere e della procura che, fin da subito (a novembre scoppia il caso Amanda Knox), sembra intenzionata a chiudere la partita. Almeno quella di Aldo, che la morte di Meredith Kercher ha reso per giornali e televisioni assai meno interessante.
 
Il caso in effetti viene chiuso. Due anni dopo. è il dicembre del 2009. Il gip di Perugia Massimo Ricciarelli deve decidere sulla base delle prove raccolte dal pubblico ministero Giuseppe Petrazzini che vuole chiudere. Archiviazione cui si oppongono i genitori di Aldo, Giuseppe e Maura, rappresentati da Zaganelli, e la prima moglie, Gioia Tognolo (con cui Aldo ha avuto due figli), rappresentata dagli avvocati Cristina Di Natale e Donatella Donati. Il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione ritenendo la morte di Aldo legata a un aneurisma cerebrale, lo scoppio di una vena. Ora tocca al gip. La procura di Perugia decide di ignorare le opposizioni degli avvocati alla richiesta del pm di escludere la possibilità dell’omicidio. Aldo Bianzino morì per cause naturali anche se entrò in carcere sano e sulle sue gambe e ne uscì disteso su una barella. Ci mette cinque giorni Ricciarelli ad accogliere la richiesta di archiviazione del pubblico ministero. Rapido e indolore. La tesi dell’aneurisma, di cui Aldo avrebbe sofferto, fa premio su una vicenda controversa e piena di ombre dove un singolo fatto avrebbe dovuto far riflettere: l’autopsia ha rilevato che il fegato di Aldo appare “strappato”, fuoriuscito dalla sua sede naturale. Ma la procura accetta la tesi che ciò sia avvenuto mentre si cercava di rianimare Bianzino con una pressione troppo violenta sull’organo epatico mentre gli si praticava il massaggio cardiaco seguito allo scoppio di quella borsa di sangue che Aldo si portava nella scatola cranica. Insomma, prima o poi, Aldo doveva morire. Il carcere era stato solo un luogo come mille altri dove la morte lo avrebbe comunque raggiunto. Questione di tempo. Il carcere è nulla di più e niente di meno che un topos, un luogo geografico; semplicemente uno spazio anodino, anonimo e senza cornici, come un’autostrada, un bosco, una piazza. Niente botte. Niente lati oscuri. Solo la tragica fatalità del destino già scritto nel suo sistema arterioso. Il caso è chiuso. Senza colpevoli? Si, ce n’è uno: Gianluca Cantoro, una guardia carceraria, ritenuta responsabile di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d’ufficio. Una recente sentenza all’inizio di marzo di quest’anno lo condanna a un anno e mezzo con pena sospesa. Il caso è chiuso.
 
Chiuso? Il padre di Aldo, Giuseppe Bianzino, non la pensa così e vuole fare di tutto perché il ricordo di suo figlio non si chiuda sotto un muro di silenzio, rotto solo dalle proteste degli amici o dei Radicali. Resta la stessa carica di dubbio dell’ottobre di cinque anni fa ma con almeno tre elementi in più. Quasi tutti emersi nella penultima udienza, in gennaio, e che hanno messo a nudo, clamorosamente, la fragilità della decisione di archiviare. Facciamo un passo indietro.
 
Bianzino entra in prigione venerdi 12 ottobre in condizioni fisiche normali. Ma la mattina di domenica 14 viene rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta e, sebbene sia ottobre inoltrato, Aldo indossa solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. La notte si è lamentato ma solo al mattino viene trasportato fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti non vedano. Un medico dirà di non riuscire a spiegarsi per quale motivo sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell’infermeria ancora chiusa poiché, in altri casi, l’intervento del soccorritore – com’è logico – avviene direttamente in cella. Si tenta dunque la rianimazione effettuando il massaggio cardiaco: uno dei punti – l’abbiamo già rilevato – più oscuri dell’intera vicenda. Le indagini dopo la sua morte riveleranno subito che si riscontrano «…lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica…». L’inchiesta però esclude proprio quell’emorragia traumatica e sposa la tesi dell’aneurisma. Viene aperto un procedimento nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. Del resto, se Aldo è morto per lo scoppio di un aneurisma cerebrale, si esclude automaticamente l’omicidio. Resta quel fegato “strappato” dalla sede naturale sul quale la letteratura medica è avarissima di casi in cui ciò possa essere avvenuto a seguito di un massaggio cardiaco. Si archivia. Ma ecco che nel recente processo alla guardia, nell’udienza del 16 gennaio scorso, emergono elementi nuovi.
 
L’aneurisma che non c’è. Tutta l’ipotesi dell’archiviazione si basa sull’esistenza di un aneurisma che viene ampiamente documentato dai consulenti del pm Anna Aprile e Luca Lalli in una minuta documentazione del 2008, nella quale si vedono (figura 1) le parti smembrate del cervello di Bianzino. A pagina 20 del loro dossier mostrano un’altra immagine (figura 2) dove viene fotografata una sezione del cervello con, cerchiata in rosso, la «“malformazione” vascolare aneurismatica origine del sanguinamento», come riportato nella didascalia. Ovvio che le due figure vengano messe in relazione. Ma non è così. Il fotogramma 2, con tanto di cerchio rosso, non è del cervello di Bianzino. è materiale d’archivio! Tanto che, interrogata dal giudice, la professoressa Aprile spiega che: «Noi non abbiamo riscontrato l’aneurisma, ma abbiamo riscontrato dei vasi con delle caratteristiche alterate, che ben si correlano con l’ipotesi di una rottura, diciamo, spontanea». Insomma quella immagine era nulla più che letteratura medica per – diciamo – mettere in relazione vasi con delle caratteristiche alterate, che ben si correlano con l’ipotesi di una rottura, diciamo, spontanea… Insomma l’aneurisma per cui Bianzino morì, nel suo cervello non ci sarebbe o almeno non è così visibile da poterne fare un fotogramma che non lasci ombra di dubbio (i corsivi sono nostri).
 
Il fegato che sanguina. I medici rilevano che attorno al fegato di Aldo ci sono 280 cl di sangue, in una parola un terzo di litro. Quella fuoriuscita di sangue sarebbe dovuta dalla pressione esercitata durante la rianimazione. Ma allora Bianzino era già morto. Oltre ai dubbi già sollevati, anche le spiegazioni tecniche lasciano aperte molte porte. Ancora Aprile davanti al giudice: «Arresto cardiaco o non arresto cardiaco, lesione in vita o lesione in morte, l’immagine che si deve avere rispetto a questa azione di compressione a livello locale è quella di una spugna. Il fegato è pieno di sangue…». Anche il magistrato ha un momento di apparente perplessità: «…si ecco, riguardo a questo punto, però, la manovra rianimatoria ha come punto di riferimento il cuore, ecco, più che il fegato…», commenta in aula. La perplessità rimane tutta. Possibile che due esperti rianimatori, pur eccitati dal desiderio di salvare un uomo (già morto), gli facciano a pezzi il fegato tanto da far uscire poco meno di mezzo litro di sangue? La rianimazione (sul cuore) durò almeno venti minuti. E qui sta l’altro punto debole. Non ve n’è traccia.
 
Il video che non c’è. La prigione ha ovviamente un sistema di telesorveglianza. Non riprende in maniera continuativa; lo fa a spezzoni. Ma sicuramente non a intervalli di venti minuti, altrimenti il carcere di Capanne sarebbe un colabrodo di evasioni o atti illegali consumati al riparo di occhi indiscreti. Eppure, tra tutte le immagini acquisite di quella maledetta notte, non vi è un solo fotogramma in cui appaia Bianzino nel corridoio dove si cercò di rianimarlo. Può darsi che Giuseppe Bianzino sia un uomo ottenebrato dal dolore, che veda nero dov’è bianco o ingrandisca e diminuisca a suo piacere. Ma i fatti sono fatti. Sia quando ci sono, come il sangue fuoriuscito, sia quando non ci sono (l’aneurisma o i fotogrammi del carcere). Quello che c’è in abbondanza sono gli elementi per cui quel caso dovrebbe uscire dalla casella “archiviato” dove è stato, forse troppo rapidamente, riposto.