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Un dialogo tra Henri Margaron e Stefano Vecchio su come l’uso dell’approccio neuroscientifico contro la legalizzazione della cannabis sia strumentale e infondato

Henri Margaron

La coalizione, verdi, liberali e SPD che si appresta a governare la Germania, ha incluso nel programma da sottoporre all’approvazione dei rispettivi partiti, la legalizzazione della cannabis. In Italia, due mesi fa, la campagna per la raccolta delle firme per un referendum sulla cannabis ha permesso di verificare quanto la popolazione non sia più disposta ad accettare l’incoerenza per non dire l’ipocrisia delle disposizioni legislative in materia. Oltre al buon senso abbiamo ora degli argomenti scientifici per confutare definitivamente gli argomenti avanzati dai proibizionisti a sostegno della politica repressiva attuale. Questi argomenti sono noti: la marijuana provoca dei danni al cervello, dipendenza, una sindrome di demotivazione e rappresenta una droga di passaggio verso sostanze più pericolose.

Questi argomenti che non si basano su delle evidenze scientifiche ma sulla convinzione che qualcosa nel cervello, guidi i nostri comportamenti e ci permetta di pensare. Questo qualcosa, lo sappiamo, si è declinato in molti modi nel corso della storia, dall’anima, alla coscienza, la mente, la psiche o da semplici strutture all’interno del cervello. Ebbene, le neuroscienze hanno stabilito definitivamente che il cervello è composto esclusivamente di neuroni, delle cellule di collegamento la cui funzione è di tenere unito l’organismo e permettergli di coordinarsi per interagire. Ne deriva che, a formare la nostra personalità e a portarci a pensare, sono le esperienze condivise con gli atri che permettono di costruire la nostra personalità e di orientare i nostri interessi. Il meccanismo è semplice, più una esperienza è gratificante più l’organismo la ripete e più il cervello si modella per aiutarlo ad affrontarla meglio. Attenzione la gratificazione o il piacere non è mai una condizione in sé che verrebbe concessa da un sistema particolare all’interno del cervello ma la sensazione che avvertiamo quando migliorano le condizioni dell’organismo o il suo equilibrio con il contesto. Motivo per cui i più ricchi non sono i più felici!

Cosa significa questo? O cosa devono sapere i proibizionisti? Le immagini del cervello esibite come prove delle lesioni provocate dalle droghe, in realtà sono il risultato del modellamento del cervello ed hanno quindi solamente un significato funzionale. La dipendenza è la condizione in cui una persona ripetendo le esperienze in cui prova un miglioramento significativo delle sue condizioni, ha modellato il suo cervello per acquisire certe competenze e perderne altre. È per questo motivo che il rischio di dipendenza non minaccia solamente il consumatore di droghe, ma anche il giocatore, l’internauta o qualsiasi persona trovi in un comportamento un sollievo ad una condizione di disagio o di frustrazione abituale. Le droghe si rivelano pericolose nella misura in cui permettono di vivere delle esperienze che rappresentano le uniche possibilità di vivere delle relazioni serene. Quindi non è certamente proibendo la cannabis che potremo evitare la dipendenza ed aiutare i giovani a vivere più sereni, ma permettendo loro di crescere in un contesto più favorevole, meno competitivo dove possono esprimere le loro opinioni essendo rispettati e imparando a rispettare gli altri, che potremo evitare chi molti giovani debbano cercare un conforto nelle droghe, nel gioco o rifugiandosi in una realtà virtuale. Se la cannabis è spesso una droga di passaggio non dipende quindi dal fatto che altera il cervello, ma che la piccola percentuale di consumatori alla ricerca di un aiuto alle loro difficoltà relazionali, deve rivolgersi a sostanze più pesanti per ottenerlo. La condizione sine qua non per uscire della dipendenza non è l’astinenza, sebbene sia spesso indispensabile, ma la possibilità di sperimentare al più presto delle gratificanti nella vita professionale, sociale, familiare o affettiva. Questo richiede una presa in carico del tossicodipendente prima possibile, purtroppo la proibizione che emargina e stigmatizza non fa che ritardare e complicare questo processo. Mentre gli argomenti sostenuti dai proibizionisti sono confutati dalle neuroscienze, le evidenze che gli operatori sia nel campo del recupero sia nella riduzione dei danni, raccolgono tutti i giorni, vi trovano la conferma scientifica.

Stefano Vecchio

Lo scritto di Henri Margaron propone una critica radicale agli indirizzi neurobiologici che negli ultimi anni hanno contribuito in modo determinante a dare consistenza al modello patologico della dipendenza che ha condizionato fortemente le rappresentazioni sociali stigmatizzanti delle persone che usano droghe. In questo senso lo trovo molto interessante per l’opportunità che offre di confrontare questa prospettiva con il nostro dibattito sulla critica dei modelli e delle rappresentazioni e culturali sulle droghe.

Le rappresentazioni sociali influiscono in modo fortemente discriminatorio sui diritti, sulle percezioni sociali e sulle stesse politiche sulle droghe per cui un lavoro di critica attiva per decostruire le basi culturali sulle quali si generano, in particolare quando si suppongono “scientifiche”, è particolarmente importante.

Come sappiamo possiamo individuare almeno due paradigmi di riferimento che hanno pesato e pesano attualmente nell’area delle politiche degli interventi: quello patologico, centrato sulla malattia cronica recidivante e quello morale, centrato sul giudizio incondizionato di qualunque uso di droghe. Chi usa droghe è posseduto da un demone incontrollabile che gli impedisce di fare scelte libere e conformi con le regole di comportamento morali prescritte dalla nostra società. I due paradigmi si intrecciano tra loro ma possono orientare diversamente gli atteggiamenti delle persone, la percezione di sé dei consumatori e la logica degli interventi.

Ad esempio la dipendenza come malattia cronica non può essere guarita completamente ma può essere “stabilizzata”. Una persona con la malattia della dipendenza è più accettata socialmente ma paradossalmente rimarrà sempre inchiodata in quella condizione. Secondo il paradigma morale una persona con dipendenza non è in grado di intendere e di volere per cui può essere riabilitato se completamente e passivamente ristrutturato attraverso specifici programmi cosiddetti terapeutici.

Come ho già detto, oggi i due paradigmi si intrecciano variamente ma rimangono identificabili e agiscono nelle diverse circostanze con maggiore incidenza in relazione ai contesti. Ad esempio nei media è sempre più attivo il paradigma morale in tutte le sue espressioni, così come è ancora riferimento ventrale per i programmi di diverse comunità terapeutiche, mentre nei servizi pubblici è più diffuso quello patologico.

Nel discorso critico proposto da Henri Margaron la critica radicale al modello neurobiologico fa cadere l’impianto su cui si fonda il modello della malattia cronica recidivante basato sul paradigma patologico. E si dà importanza al contesto, al setting “nella formazione della personalità e nell’orientamento dei nostri interessi”. Il cervello si modella in relazione alla complessità delle relazioni tra set e setting potremmo dire usando le parole di Zinberg. Ma dovremmo dire allora anche che la nostra relazione con le droghe modella il cervello interagendo con il set e il setting.

Su questo punto osservo il rischio di una contraddizione nel discorso innovativo di Henri Margaron. Vorrei partire da questo rilievo per riproporre le sue stesse tesi alla luce dello schema di Zinberg e del dibattito che da tempo si è sviluppato intorno al modello dell’autoregolazione e dell’apprendimento sociale nella interpretazione dei modelli di uso delle droghe.

Osservo che nella seconda parte dello scritto sembra che in qualche modo si riproponga il paradigma morale, rivisitandolo in una forma meno etichettante ma si continua a sostenere che la dipendenza è un rischio ed è pericolosa “nella misura in cui permette di vivere delle esperienze che rappresentano le uniche possibilità di vivere sensazioni serene”. Leggendolo sulla base della dialettica controllo e perdita del controllo, sarebbe come dire che “la dipendenza” è pericolosa perché la persona considera la droga la sua unica strategia o interesse di vita.

Controllo e perdita del controllo fanno parte delle strategie quotidiane di autoregolazione delle persone che usano droghe che possono oscillare tra picchi e recuperi all’interno di un equilibrio tra queste oscillazioni. La maggior parte delle persone mantiene un equilibrio tra uso di droghe e interessi, impegni di vita e piaceri collegati, autoregolandosi. Accade normalmente, ed è più accettato culturalmente, per l’uso di alcol tra la popolazione adulta e giovane.

Ora anche secondo la prospettiva dell’autoregolazione, seguendo lo schema di Zinberg, si considera che una persona possa perdere il controllo e incontrare diversi ostacoli e difficoltà per recuperarlo. Sappiamo che una parte di questi ostacoli sono legati proprio agli stigmi e alle rappresentazioni sociali influenzate dai due paradigmi e dalla legge penale, cioè dal setting. E sappiamo anche che alcuni consumatori fanno più fatica di altri a recuperare il controllo sulla base degli elementi del set, della persona, e del setting. È condivisibile l’analisi secondo cui in questi casi la persona stia perdendo il controllo in quanto sta sostituendo l’uso di droghe ai suoi interessi e impegni di vita, compromettendo il suo equilibrio tra questi tre elementi, con tutte le conseguenze collegate relazionali, sociali ed economiche collegate. Ma sappiamo anche che in questi casi limitati si tratta di adottare, sia attraverso le pratiche dei servizi nella prospettiva della Riduzione dei danni e dei rischi, che nel supporto naturale tra pari, logiche di empowerment orientate al recupero di nuove e più efficaci strategie di autoregolazione, aggiornando le competenze già acquisite.

Ora osservo: se il cervello non ha una struttura che condiziona i comportamenti e precostruisce i nostri destini, e si modella e rimodella continuamente nella relazione con i contesti e sulla base delle esperienze che si manifestano come più efficaci per ognuno di noi, con tutte le influenze culturali e politico-sociali, anche l’uso di droghe si inserisce in questo universo. Se inquadriamo questa realtà nello schema di N. Zinberg possiamo affermare che il cervello delle persone che usano droghe si modella e rimodella sulla base delle interazioni tra droga, set e setting. La dipendenza si presenta come un costrutto inadeguato e etichettante in quanto, anche se depurata del modello neurobiologico rinforza il discorso ancora diffuso che ogni uso di sostanze psicoattive è incontrollabile e pericoloso. E sappiamo che questa affermazione non corrisponde alla realtà della maggioranza delle persone che usano droghe. E, a me sembra, che la dipendenza sia un costrutto che strida con le tesi stesse di Henri Margaron

La mia sensazione è che Henri Margaron esprima concetti analoghi a quelli che ho esposto sinteticamente, ma con un linguaggio che rischia di rendere meno esplicita la ricaduta del suo discorso sulle interpretazioni del fenomeno collegate proprio con quel modello neurobiologico-patologico sottoposto alla sua critica radicale.