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Entro nella discussione, sperando di portare un contributo abbastanza utile, perché il dibattito mi sembra importante e meriterebbe di essere allargato a una pluralità di voci.

Da venticinque anni Forum Droghe, e FuoriLuogo, è una sede cruciale di acquisizione di consapevolezza sul consumo di sostanze. Alcuni temi hanno percorso il nostro lavoro a lungo. Ora credo che dovremmo “alzare l’asticella”, nel senso di dare maggior valore alle idee e prassi che – nel tempo – abbiamo elaborato e verificato. E nello stesso tempo credo che sia da un punto di vista scientifico che politico dovremmo sforzarci di andare un po’ più avanti nelle nostre elaborazioni.

Da un punto di vista scientifico e politico: non esiste una scienza a-politica, lo sappiamo e non vale la pena sottolinearlo ancora, e d’altra parte la politica – e l’economia, non dimentichiamolo – c’entra con la scienza, ne finanzia gli approcci mainstream e le riviste più prestigiose e impattate, che faranno opinione e determineranno molte scelte successive.

In quest’ottica la vicenda San Patrignano e il dibattito che, pur a venti anni di distanza, si è sviluppato sui modelli di comunità di trattamento più o meno terapeutico ne sono stati un esempio. Esempio inglorioso, se pensiamo alla superficialità con cui questi temi sono stati trattati all’epoca da molti (non da tutti, ovviamente) e si sono tradotti con plauso popolar-populista (anche se allora non si chiamava così) in provvedimenti legislativi.

Tra i temi toccati nel dibattito, che vorrei riprendere, il principale mi pare riguardare i modelli evergreen: modello morale e modello disease.

Perdonatemi se ve li racconto ancora, ma è giusto per far notare a quando risalgono e la necessità, quindi, di dare ormai per acquisiti i loro limiti. Jane Ogden, una studiosa di psicologia della salute, ha descritto nel 1996 (si parla di venticinque anni fa…) l’excursus storico dei due principali modelli di interpretazione dell’addiction, riferendosi in maniera particolare all’alcol. Il modello morale, in realtà, risale al Diciassettesimo secolo: in base a tale approccio la sostanza non è demoniaca di per sé, ma lo diventa in coloro che ne fanno un uso eccessivo, per i quali la punizione dovrebbe servire da deterrente. La responsabilità personale è salva, ma l’intervento punitivo è necessario. Nei secoli successivi, con il progredire anche della scienza medica, alla deficienza morale si va gradatamente sostituendo la fragilità biopsichica.  L’impianto teorico che governa questo passaggio è simile a quello descritto da Thomas Szasz negli anni Sessanta (Szasz, 1960) a proposito della follia, in cui si assiste ad uno spostamento di costrutto da bad, cattivo e quindi responsabile e punibile, a mad, folle e irresponsabile. Negli anni che seguono si afferma nel campo delle dipendenze inizialmente un primo modello disease, che identifica la sostanza in quanto tale – l’alcol, ma l’analisi vale anche per le altre – come malattia. Nel Ventesimo secolo il quadro cambia, almeno in parte, spostandosi dalla sostanza in sé ai consumatori, una parte dei quali, per problemi individuali, diventano addicted e quindi malati. Dagli anni Settanta in poi l’analisi si fa più raffinata e i problemi sono analizzati in modo, per così dire, più “laico”: la teoria dell’apprendimento sociale contestualizza (o, almeno, dovrebbe contestualizzare) il comportamento di consumo all’interno dei comportamenti appresi. E da qui hanno origine in seguito, seppur in contesti diversi e spesso senza relazioni dirette, i modelli di ricerca e di intervento come il drug-set-setting di Zinberg (1984), l’interpretazione del comportamento come una serie di step successivi nei quali il percorso è evolutivo e non necessariamente in sequenza, e soprattutto non c’è l’astinenza finale obbligatoria come una sorta di paradiso promesso (Prochanska e DiClemente, 1983), e inoltre la valutazione delle ‘ricadute’ come step di processo di Marlatt (Marlatt e George, 1984).

Se questo è stato l’iter storico, e sarebbe difficile contestarlo, perché interrogarsi ancora sulla possibile utilità del modello morale, saldato nelle sue applicazioni sociali con l’intervento penale? Scientificamente, e politicamente, dovemmo aver capito che non funziona.

Ma anche sul modello medico: già allora (decenni fa) si diceva che solo il modello dicotomico abuso-astinenza non è una ipotesi praticabile sempre e comunque, e quindi non possiede un fondamento inequivocabile. Parlando di alcol, sostanza peraltro non priva di tossicità, già si supponeva un consumo controllato come possibilità. Per inciso, è una modalità comportamentale che molti di noi usano: gli astemi in Italia oggi sono soltanto il 30%, più o meno, del totale della popolazione, e in circostanze particolari – come adesso, durante la pandemia – non solo aumenta la percentuale del consumo, ma si incrementa anche la quantità e cambiano le modalità con un uso a maggior rischio per la salute.

Fin qui, nulla di nuovo. Se non il fatto che se ne continua a parlare ancora. Come ho scritto, sono modelli evergreen e spesso ritornano.

Adesso però potremmo provare ad andare un po’ avanti:

  1. Le neuroscienze potrebbero non essere viste come il nemico. Voglio dire: come psicologa di comunità, formata sulla centralità dell’individuo-nel-contesto e radicata psicologicamente nella visione basagliana della salute mentale, mi sono però un po’ stancata di identificare le neuroscienze in sé come il male. Sapere come funzioniamo è importante, come è importante conoscere come funzionano gli stimoli – anche psicotropi e stupefacenti – sulle nostre persone, mente e corpo. Se fossero, infatti, sostanze inerti non ci sarebbe motivo di usarle. Ci interessa sapere cosa (da un farmaco all’esercizio fisico) può intervenire sul declino o malfunzionamento dell’attività cerebrale/mentale. Ma questo non significa, tuttavia, attribuire ai neuroscienziati la decisione di cosa dobbiamo fare. E soprattutto non vuol dire dover essere puniti o giudicati irresponsabili se non possiamo o non vogliamo farlo. Potremmo provare a uscire da una posizione storica di subalternità e rovesciare il rapporto con le neuroscienze, che non sono peraltro un tutto indifferenziato? Potremmo esplorare, per esempio, i progressi e le acquisizioni recenti per vedere se per caso non possano essere funzionali a stili di vita diversi?
  2. La scienza e la politica, in realtà, dovrebbero procedere su paradigmi simili, senza collusioni ma anche senza separatezze. La scienza verifica delle ipotesi, che sono di volta in volta diverse – ed è bene che lo siano – e in continua evoluzione, analizzando rigorosamente (ovvio) i metodi più funzionali e più praticabili per risolvere un problema. Le policies, le strategie politiche, se ne avvalgono – sarebbe bene che se ne avvalessero – per disegnare processi di cambiamento.
  3. Le policies, però, non si identificano con le politiche portate avanti per confermare un blocco di potere e/o una ideologia funzionale ad un segmento della società, senza porsi problemi se esista una fiducia collettiva in un disegno sociale. È il sovranismo, infatti, che affida solo alla decisione del “capo” la definizione di cosa sia il bene e il male, come fanno i leader delle destre e come del resto faceva anche Muccioli.
    Al contrario, per ribadire quanto sia importante costruire un sentire comune sui problemi, Esther Duflo, direttrice del Poverty Action Lab del MIT, premio Nobel per l’economia 2019, ha recentemente dimostrato come durante la pandemia le migliori performance sanitarie si sono avute laddove i cittadini avevano una maggiore fiducia nelle istituzioni politiche e nei messaggi che venivano inviati (Banerjee e Duflo, 2019; Banerjee,…, Duflo, …, 2020).
  1. Ultimo punto, ma non per importanza, la centralità dei soggetti. Dice giustamente Ronconi, nel suo articolo in questo dibattito, che è importante “smettere di leggere le persone attraverso le droghe e cominciare a leggere le droghe attraverso le persone”. Questo significa fare una ricerca scientifica situata (e vale per tutte le discipline, dalla psicologia alla sociologia, alle neuroscienze, alla formazione, all’etica), in cui persone e contesti valgono perlomeno quanto big data e algoritmi. Una ricerca in cui si lavora per esplorare un tema – non etichettato necessariamente come problema – e non per creare verità, per farsi buone domande e non per dare certezze.

Se si lavora in questo modo, scienza e politica possono anche coniugarsi e diventa possibile dimostrare l’anacronismo di impalcature legislative e di prassi di intervento vecchie, oltre che reazionarie, e proporre invece cambiamenti di legge e di contesto.

Bibliografia

Banerjee, A. V., & Duflo, E. (2019). Good economics for hard times: Better answers to our biggest problems. UK: Penguin.

Banerjee, A., Alsan, M., Breza, E., Chandrasekhar, A. G., Chowdhury, A., Duflo, E., … & Olken, B. A. (2020). Messages on covid-19 prevention in india increased symptoms reporting and adherence to preventive behaviors among 25 million recipients with similar effects on non-recipient members of their communities (No. w27496). National Bureau of Economic Research.

Marlatt, G. A., & George, W. H. (1984). Relapse prevention: Introduction and overview of the model. British journal of addiction79(4), 261-273.

Ogden, J. (1996). Health psychology: A textbook. Buckingam-Philadelphia: Open University Press.

Prochaska, J. O., & DiClemente, C. C. (1983). Stages and processes of self-change of smoking: toward an integrative model of change. Journal of consulting and clinical psychology, 51(3), 390.

Szasz, T. S. (1960). The myth of mental illness. American psychologist, 15(2), 113.

Zinberg, N. E. (1984). Drug, set, and setting: The basis for controlled intoxicant use. New Haven: Yale University. Trad. it. Droga, set e setting. Le basi del consumo controllato di sostanze psicoattive. Torino: Edizioni Gruppo Abele, 2019.