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Poco prima dell’apertura della 63° Commission on Narcotic Drugs dell’Onu (CND), il 2 marzo a Vienna, si era appreso che la discussione della raccomandazione dell’Oms sulla cannabis – che ne dimostra le proprietà mediche e ne chiede la diversa classificazione (fuoriluogo.it/oms) – non avrebbe avuto luogo. Pressioni da parte dei paesi iperproibizionisti, a cominciare dalla Russia, e vincoli delle procedure delle Nazioni Unite sul consenso lo hanno infatti impedito. Era l’evento più atteso, e quello più controverso, in un ordine del giorno che poco aggiungeva a quanto già discusso e deciso nel 2019, al Segmento di Alto livello (vedi questa stessa rubrica, 20 marzo 2019).

Da parte di Unodc è stato ribadito che trattasi di “tema sensibile”, cioè capace di rompere il sempre meno reale consenso globale, e che dunque serve tempo, per questo si va a dicembre 2020. Ma tempo per cosa? Non certo per approfondire le evidenze delle proprietà mediche della cannabis: su questo il documento Oms è definitivo, e del resto cosa potrebbe aggiungere alle evidenze dell’Oms un organismo politico come l’Unodc? Ancora una volta il re è nudo: alla ormai annosa retorica sulla centralità delle “evidenze” fa riscontro la resistenza ideologica di chi teme lo “sdoganamento” della legalizzazione della cannabis ricreativa (per altro la canapa rimarrebbe comunque classificata sostanza pericolosa!). Aspetto, questo, emerso nelle dichiarazioni di alcuni governi in sede di discussione sul rinvio, con il nome elegante di “valutazione dell’impatto sociale” della riclassificazione. Curioso, in un consesso globale che dal 1961 ai giorni nostri non si è mai peritato di valutare il drammatico “impatto sociale” delle sue politiche. In ogni caso, il tema spinoso di bilanciare la proibizione delle droghe con il diritto di accesso alle cure che le stesse droghe possono garantire (accesso previsto dalle Convenzioni) è apparso cruciale, rivelandosi un nervo scoperto del sistema-droghe globale. Non solo di canapa infatti si è parlato, sotto questo profilo: gli eventi promossi dalle Ong hanno per esempio posto il tema degli psichedelici nella cura della depressione e della ibogaina nelle dipendenze da oppiacei, rivelando come l’enfasi proibizionista continui a negare il diritto alla ricerca e alla cura. E in sede di confronto tra governi si è profilato un nuovo possibile conflitto attorno al tramadolo, sostanza che in Africa viene largamente usata – ed anche abusata – fuori dalla prescrizione medica ma che al contempo è il maggiore, se non il solo, antidolorifico disponibile.

La cannabis, comunque, messa fuori dalla porta è rientrata dalla finestra: numerosi gli eventi collaterali che ne hanno trattato sotto il profilo delle politiche alternative (vedi fuoriluogo.it/autoregolazionecnd) e sotto quello medico, e che hanno coinvolto anche alcuni governi. Per altri aspetti, c’è da segnalare la crescente centralità del tema della decriminalizzazione delle condotte correlate all’uso personale: non solo posto, come ovvio, dalla gran parte delle Ong, ma anche rilanciato dalle agenzie dell’Onu, come Oms, Unaids, Unhchr e anche, sebbene con accenti più centrati su alternative al carcere, da Unodc: la necessità di un diverso bilanciamento tra approccio law&order e politiche sociali e sanitarie appare in agenda. Del resto il recente (2018) documento Common Position on drug policies, siglato da 31 agenzie dell’Onu, già andava in questa direzione, cercando di dare corpo alle parti più avanzate del Documento finale Ungass 2016.

Reportage su Vienna 2020-63°CND su fuoriluogo.it/vienna2020.