Tempo di lettura: 2 minuti

Più che basiti, più che innervositi si resta stupefatti di fronte all’ennesimo tentativo di affrontare alcuni aspetti di consumi di sostanze o di dipendenze con approcci unicamente medici.

Meglio, unicamente basati su un “neurocentrismo” che, ormai, ha mostrato tutti i limiti di trattamenti che prendono in considerazione solo il cervello.

È il caso, ultimo ma non unico, della sperimentazione che partirà nel Dipartimento Dipendenze dell’Ussl 6 Euganea di Monselice (Padova); con il “vestito” di un trial randomizzato, controllato, doppio cieco (il golden standard delle ricerche sui farmaci), si parte sottoponendo trenta cocainomani e trenta giocatori d’azzardo ad una somministrazione di stimoli magnetici sul cervello. L’obiettivo sarebbe quello di “resettare” questi ultimi ed ottenere una riduzione del craving, il desiderio che sorge al pensiero od alla vista della droga o delle slot. Conseguentemente, si dovrebbe ridurre la dipendenza dalla sostanza o dal gambling.

Si dovrebbero conoscere molto presto i risultati.

Tuttavia, si scorgono già alcune criticità, come ad esempio le modalità di arruolamento del campione.

Ma se questi sono aspetti che non appaiono nel riassunto giornalistico disponibile e che, magari, sono espressi in forma inappuntabile nel protocollo di ricerca, quello che lascia stupiti è il messaggio sottostante: le “dipendenze” sono malfunzionamenti unicamente cerebrali. Tutto il resto sparisce, in quel determinismo, in quella “reductio ad absurdum” che pervade ormai da quasi due decenni ricerca e trattamenti sui e dei consumi di sostanze.

Da quando l’addiction è stata definita “malattia primaria, cronica e recidivante del cervello” (affermazione di ASAM e NIDA), il campo è militarmente occupato da studi e pratiche che limitano alla scatola cranica ed al suo contenuto l’attenzione e la cura. E, in tempi di riduzione spaventosa non solo delle risorse destinate alla ricerca, ma anche ai trattamenti e perfino alle occasioni di discussione, di confronto, di dibattito sui temi dei consumi e sulle politiche relative, v’è da chiedersi come avranno fatto i bravi ricercatori a trovare i fondi per questo studio.

La sentenza Asam e Nida è ormai datata. Mentre una neuroscienziata americana (Sally Satel) afferma: “il modello neurocentrico lascia la persona consumatrice nell’ombra. Mentre, sia per trattare i suoi problemi, che per guidare le politiche, è importante comprendere quello che il soggetto pensa. È nella mente del consumatore che persistono le storie: come ha iniziato, perché continua a consumare e, se decide di smettere, come lo può fare. Queste risposte non possono essere trovate esaminando il suo cervello, qualsiasi livello di sofisticazione abbiano gli strumenti utilizzati. Il terreno neurobiologico è quello del cervello e delle cause fisiche, i meccanismi che sono dietro ai pensieri ed alle emozioni. Il terreno psicologico, il regno della mente è quello della persona, dei suoi desideri, delle intenzioni, degli ideali e delle ansie.”

Cervello e mente, quindi, non sono la stessa cosa. Ambedue sono essenziali ma si continua a commettere l’errore di privilegiare il primo (il cervello) e di scansare il secondo (la mente).

Confesso, infine, che c’è un livello di curiosità (mista, lo ammetto, a scetticismo) per i risultati dello studio relativo ai risultati che si otterranno a lungo termine su una patologia compulsiva senza sostanze come il gioco d’azzardo. Condizione con sicure variabili neuronali, ma con altrettante variabili psicosociali che non possono essere scalfite (lo ripeto: a medio e lungo termine) dalla stimolazione magnetica.

L’addiction, quindi, deve essere sempre trattata come una “malattia” che non scomparirà mai essendo considerata cronica?

E tra quanto potremo parlare e confrontarci su quei consumi regolati individualmente e privi di grandi rischi?