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I governi italiani di qualsiasi colore hanno smesso di occuparsi di politiche sulle droghe. Non può essere letta altrimenti la mancata convocazione della Conferenza Nazionale sulle Droghe da oltre dieci anni. Il dibattito sul bilancio delle scelte repressive prosegue nel mondo dell’associazionismo, ma le istituzioni non danno impulso all’acquisizione dei molti saperi necessari per confrontarsi con un universo, quello delle droghe e dei consumi, sempre più differenziato.

In questo vuoto c’è spazio per l’improvvisazione, che ancora una volta imbocca la scorciatoia repressiva del carcere.

Muove in questa direzione l’annuncio della ministra dell’Interno Lamorgese (19 febbraio 2020), dal quale apprendiamo che è allo studio una norma che consenta l’arresto “immediato” e la custodia cautelare in carcere per i piccoli spacciatori ovvero, tradotto in termini tecnici, per i responsabili dei fatti di lieve entità (art. 73, comma V, Dpr 309/90).

A mettere in fila le dichiarazioni della Ministra riportate dalla stampa (sulle quali poi è calato, per fortuna, il silenzio), capiamo che la proposta scaturirebbe da un tavolo di lavoro con il ministero della giustizia, che avrebbe come destinatari gli spacciatori “al secondo fermo”, e che sarebbe volta a contrastare la demotivazione delle forze dell’ordine che, in assenza di custodia in carcere, tornerebbero a rivedere il pusher nello stesso angolo di strada.

Alcune considerazioni si rendono obbligatorie. Una viene prima delle altre. Lo scoraggiamento delle forze dell’ordine è un sentimento che va compreso e approfondito per decifrarne le cause e approntare i rimedi; non può essere addotto, viceversa, a giustificazione di un intervento legislativo in materia di droghe, il quale dovrebbe tenere conto di una pluralità di fattori e della multidimensionalità del fenomeno.  E dovrebbe, anche, partire da elementi di realtà.

Il primo dato di esperienza è che i piccoli spacciatori, in carcere, ci finiscono eccome. Nonostante la fattispecie dell’art. 73, comma V, Dpr 309/90 non consenta l’arresto obbligatorio in flagranza e la misura della custodia cautelare, le prigioni italiane traboccano di piccoli spacciatori (spesso consumatori coatti allo spaccio dalla necessità di approvvigionamento della sostanza). Sono diversi i meccanismi che lo consentono, alcuni dei quali ben analizzati nell’indagine commissionata dal Garante regionale dei diritti dei detenuti della Toscana e condotta dalla Fondazioni Michelucci. Si va dall’espansione dell’arresto facoltativo al cumulo di più condanne “piccole”, dalla contestazione della fattispecie grave (poi derubricata nella lieve in sede di sentenza) alla contestazione di altri reati che consentono l’arresto in flagranza (tra tutti, la resistenza a pubblico ufficiale). E così ci ritroviamo con un carcere che trabocca di tossicodipendenti (un quarto della popolazione detenuta) e di condannati per violazioni della legge sulle droghe (poco meno di un terzo).

Tutto questo è servito per contrastare il fenomeno dello spaccio da strada? No.

Si tratta di un mercato più florido che mai, gestito in larga parte dalla criminalità organizzata. Basterebbe questo per constatare il fallimento delle politiche di repressione penale, se non si vogliono scomodare i documenti internazionali (Ungass 2016) o le dichiarazioni del Procuratore Nazionale Antimafia Roberti in tema di depenalizzazione dell’uso della cannabis.

Occorre un cambio di passo: governo sociale del fenomeno droghe, strategie diversificate in relazioni alle diverse sostanze e ai diversi consumi, fine della politica dei tagli lineari che hanno demolito i servizi, garanzia per tutti della prospettiva della riduzione del danno, politiche preventive. Con l’improvvisazione non si va lontano. Se ne sono accorti nelle Americhe, speriamo che il vento cambi anche da noi.